T.
S. Eliot’s Four
Quartets,
musica per la mente e poesia (metafisica) che si nutre di dubbi…
Non
sono un lettore accanito di poesia; diciamo pure (subito) che non
leggo quasi (mai) poesia e che il genere che preferisco è la
narrativa, in particolare, il romanzo. E però… quando mi capita di
leggere (o di ri-leggere) i miei poeti favoriti (Shakespeare, Luis
Cernuda, Pier Paolo Pasolini e pochi altri) ecco che mi sorprendo a
stupirmi di fronte alla sfuggevolezza del significato quand’esso è
incastrato o abilmente infilato all’interno di significanti
disposti in versi…T. S. Eliot è un altro di quei poeti che non mi
stanco di ri-leggere, proprio perché non lo capisco bene fino in
fondo e perché la sua poesia è piena di riferimenti nascosti, di
significati misteriosi, di rimandi a cose che non so decifrare.
All’interno dell’opera eliotiana, i Four
Quartets
(Quattro quartetti) occupano senz’ombra di dubbio una posizione
strategica, sia perché sono l’ultima prova importante dell’autore
sia perché coronano quel percorso accidentato e pieno di domande che
conduce Eliot verso la conversione alla religione cristiana (per cui,
il lettore attento si rende conto di come cambia il “pensiero”
del poeta dalla visione apocalittica e indelebilmente pessimista di
The Waste Land (La
terra desolata) e di
The Hollow Men (Gli
uomini vuoti) alla visione critica e “dubbiosa” di Ash
Wednesday (Il
mercoledì delle ceneri) fino a quella “convertita” e
apparentemente risolta e pacificata dei Four
Quartets
succitati (l’arco temporale spazia dal 1922, annus
mirabilis
perché in quello stesso periodo uscirono Ulysses
di Joyce e il primo vol. della Recherche
proustiana,
se non erro e non ricordo male, fino al 1942, l’anno in cui uscì
Little
Gidding,
che è l’ultimo dei quattro quartetti dopo, nell’ordine, Burnt
Norton –
del 1936 – East
Coker –
del 40 – e
Dry Salvages –
del 41).
Se
dico che la visione di T. S. Eliot diventa “risolta” e
“pacificata” solo apparentemente è perché – credo – anche i
Four
Quartets
si nutrono di dubbi, al di là della fede in Dio o in una giustizia
divina che punirà i malvagi e premierà i buoni di cuore. In tutti e
quattro i lunghi componimenti, sembra come se Eliot si sforzasse di
credere in un ordine superiore e divino, ma è come se non ci
riuscisse fino in fondo e hai voglia a citare il Paradiso
dantesco, il poeta americano si sporge sull’abisso, si pone domande
esistenziali sui limiti umani, costruisce a grandi linee una
metafisica del “perdono” e dell’ “umiltà”, ma, alla fine,
sembra non dare credito lui per primo alle visioni celestiali che
dovrebbero attenderci di là, una volta scampati all’Inferno e ai
demoni delle tentazioni…
Uno
dei problemi metafisici più complicati che Eliot sviluppa
all’interno di tutti e quattro i quartetti è il tempo. Lo si può
intuire da subito, basta leggere le due epigrafi in greco tratte da
Eraclito, il filosofo del pantha
rei, del
“tutto scorre” (ovvero, del tempo come una freccia: non ci può
bagnare due volte dentro l’acqua dello stesso fiume). E come
comincia Burnt
Norton?
Con una serie di aforismi che fanno venire il capogiro, se uno si
ferma a sviscerare i singoli versi…
Time
present and time past
Are
both perhaps present in time future,
And
time future contained in time past.
Sembra
proprio uno scioglilingua, più che un aforisma smontato e rimontato
in versi:
Tempo
presente e tempo passato
Sono
forse entrambi presenti nel tempo futuro,
e
il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se
è vero che ci è possibile intuire che sia il passato sia il
presente sono entrambi presenti nel futuro (confluiscono verso il
tempo futuro, anche perché noi siamo fatti di tempo che si proietta
costantemente verso il tempo futuro, io sono il “progetto di me”
in vista di quello che farò o penserò di fare domani o fra un
anno), diventa piuttosto difficile (per non dire impossibile) capire
il terzo verso: che diavolo significa che il tempo futuro è
“contenuto” dentro il tempo passato? Come fa il futuro a stare
anche dentro al passato? Lascio aperta la domanda (e trovo questa
possibile o plausibile piccola risposta: anche quando eravamo passato
proiettavamo il nostro tempo presente di allora verso il futuro…).
Ecco
come continua la prima strofa della prima parte del primo quartetto:
If
all time is eternally present
All
time is unredeemable.
Ovvero:
Se
tutto il tempo è eternamente presente
Allora
tutto il tempo è irredimibile.
E
qui la cosa si complica per la semplice presenza di un aggettivo
legato al verbo (ultra-connotato) “redimire”: si redimono i
peccati, il Dio cristiano, in particolare, si è fatto uomo ed è
sceso sulla Terra per “redimire” i peccati dell’uomo… Solo
che qui Eliot sta indossando i panni del filosofo, più che le vesti
del prete: “Se tutto il tempo è eternamente presente, se si vive
in un eterno “tutto scorre”, allora si vive in un tempo e si vive
una vita che non si possono redimere”… Insomma, il tempo non può
essere eterno presente, il presente deve avere un senso, nel senso
anche di “direzione”, ovvero: deve andare verso qualche altro
tempo, un tempo altro dal presente, quale? Quello dell’eternità
così come ce lo racconta la Bibbia? L’eternità è assenza di
tempo, anche perché, nell’eternità, e se crediamo alla buona
novella, il tempo scompare, e tutti siamo redenti… se crediamo e
abbiamo fatto il Bene…
E
subito dopo Eliot torna a filosofeggiare:
What
might have been is an abstraction
Remaining
a perpetual possibility
Only
in a world of speculation.
Che
possiamo tradurre così:
Ciò
che avrebbe potuto essere è un’astrazione
Che
resta una perpetua possibilità
Solo
in un mondo di speculazione.
E
qui – a quanto capisco – mi sembra che Eliot stia criticando
sottilmente i sofisti e i filosofi che si nutrono di speculazione,
che costruiscono interi universi basandosi sul “se” o sul “come
se” kantiano: “come sarebbe stata la mia vita se, invece che A,
avessi scelto B”…
Ecco
dunque la sua versione dei fatti: bando alle ciance, bando ai
filosofemi, bando ai tanti “se” che non portano a nulla:
What
might have been and what has been
Point
to one end, which is always present.
L’affermazione
è contundente, netta, decisa, non lascia adito ai tanti dubbi
sollevati dai versi precedenti:
Ciò
che avrebbe potuto essere e ciò che è stato
Mirano
a un solo fine, che è sempre presente.
E
qui il verbo “to point to” fa davvero la differenza: mirare,
puntare, indicare, segnalare, questo verbo – come fanno i segnali
autostradali – guida ogni “come se”, ogni “possibilità” o
“ipotesi” non realizzata verso un destino preciso, netto, su cui
non si può dubitare: l’eterno presente, ciò che è sempre
presente (e uno può anche tranquillamente pensare – in questo
contesto – a colui che è sempre presente, l’Onnipresente, Dio
stesso). Poi il componimento prende un’altra piega; Eliot abbandona
la riflessione sul tempo per entrare di colpo in un ambito diverso,
quello delle immagini (e lui è bravissimo a creare poesia a partire
dalle immagini, sensoriali, tattili, visive, o uditive – non è un
caso se i Four
Quartets
si chiamano così, il riferimento all’udito, alla musica, oltre che
alla musicalità – dei versi, delle rime, delle assonanze interne e
dei parallelismi, insomma, della poesia tout
court –
è voluto, auspicato e perseguito sin dal titolo dell’opera):
Footfalls
echo in the memory
Down
the passage which we did not take
Towards
the door we never opened
Into
the rose-garden. My words echo
Thus,
in your mind.
Non
è facile tradurre questi versi; questa è la mia versione:
Eco
di passi nella memoria
Verso
il passaggio che non prendemmo
Verso
la porta che non aprimmo
Nel
giardino delle rose. Le mie parole fanno eco
Dunque
nella tua mente.
Il
tema del tempo viene qui esplicitato attraverso varie metafore: la
memoria come un passaggio (una strada, un corridoio, un cammino) che
non abbiamo percorso; come uno spazio in cui risuona l’eco dei
passi (in questo senso Eliot sposa il punto di vista di molti
filosofi ed esperti in materia – a partire da Sant’Agostino –
secondo i quali il tempo è sempre spazio che si ricorda o si evoca,
tendendo l’essere umano a “spazializzare” costantemente il
tempo stesso); memoria del passato come ricordo di quella scelta
(proprio quella) che abbiamo scartato e dimenticato: qui questa
scelta è indicata dal “correlativo oggettivo” della porta che
non aprimmo (verso dove? Che cosa c’era dietro quella porta? Quante
volte ci chiediamo: e se avessi varcato quella soglia? Insomma, quel
“regno delle possibilità” più sopra criticato torna qui a farsi
sentire – e vedere – con la potenza delle immagini; Sliding
doors,
come nell’omonimo film, Eliot ci fa venire in mente – con pochi
versi – tutte quelle volte in cui abbiamo preso una strada
piuttosto che l’altra, abbiamo aperto (o chiuso) una porta
piuttosto che l’altra…). In realtà, qui la porta non aperta
introduce in un luogo preciso: il “rose-garden”, il giardino
delle rose… E chissà a quale giardino concreto stava pensando il
poeta? Ma non è pure il Paradiso un giardino? Ci sono le rose nel
Paradiso? Non era per caso per Dante – e secondo la sua visione
medievale delle cose – la Rosa il simbolo dell’Empireo?
“Le
mie parole dunque – ma anche “perciò”, “quindi” – fanno
eco nella tua mente”. E qui il limite tra citazione e espressione
dei propri stati d’animo si fa sottile: a chi si sta riferendo il
poeta dicendo “your”? Di chi è la mente a cui si riferisce? In
quale mente riecheggiano le parole di Eliot? Nella “mia” di
lettore? In quella di una donna amata in passato?
Ecco:
qui capisco una cosa, e cioè che la poesia è “sempre” eco delle
parole di un altro; parole che riecheggiano anche a lettura
completata; parole che evocano paesaggi, passaggi, momenti che non
ricordiamo, o che non credevamo potessimo ancora ricordare…
The
Four Quartets,
in tal senso, è poesia allo stato puro…
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