domingo, marzo 17, 2013


 La lucina in fondo all’abisso: ovvero, Antonio Moresco, apocalittico e non integrato



Pochi scrittori, nell’ambito del panorama italiano contemporaneo, sanno scrivere in modo lirico e visivamente emozionante come Antonio Moresco; pochi scrittori italiani, oggigiorno, intendono la letteratura come sperimentazione sul linguaggio e strumento privilegiato d’esplorazione della realtà attraverso la forza (ri)creativa dell’immaginazione. Con La lucina (Milano, Mondadori, 2013), l’autore degli indimenticabili e sconvolgenti Canti del caos torna ad esercitare la sua immaginazione potente e (ri)creativa con una storia breve, ma che resta impressa nella mente del lettore, facendolo scattare in piedi sulla sedia o obbligandolo a sottolineare certe frasi o lasciandolo a bocca aperta all’altezza di certe svolte della trama come rare volte (mi) capita leggendo, appunto, letteratura italiana contemporanea…

In un paesino di montagna quasi completamente abbandonato da Dio, un uomo vive in una casetta diroccata una vita che sembra fatta d’attesa e d’osservazione acuta della natura che lo circonda. Quest’uomo parla con se stesso, ma anche con gli animali e le piante e gli alberi che si stagliano all’orizzonte. E la cosa bella è che gli animali – le rondini, in particolare, che sfrezzano nel cielo a velocità supersoniche – gli rispondono. Tutto si muove e tutto parla, se stiamo attenti e con le orecchie bene aperte.

Fino a quando, di notte, quest’uomo qualunque, questa sorta di signor Nessuno, non nota una lucina che richiama subito la sua attenzione e che, di lì a poco, diventerà una specie di ossessione. Chi vive in quella casa lontana immersa nel bosco dall’altra parte del paesino? Chi altri può accettare di vivere isolato da tutto e da tutti in un posto simile?

Non svelerò l’arcano, per non rovinare la sorpresa a chi si prenderà la briga (e proverà il piacere) di leggere Moresco. Dirò, però, che La lucina non ha niente a che vedere con Il piccolo Principe – come recita, invece, la quarta di copertina, forse per accalappiare il lettore sprovveduto di turno – e che, invece, sì che ha molto a che vedere con Leopardi, o meglio, con il Leopardi dello Zibaldone (o quello del “Cantico di un pastore errante dell’Asia”). Lo stile di Moresco si nutre di poesia e diventa poetico (per ritmo, l’uso di certe metafore ripetute, il periodare con prevalere delle coordinate sulle subordinate, etc.) anche quando si parla di radici di alberi o di insetti rinsecchiti trovati nel water o di farfalle morte che non vanno più via, o di neve che, schiacciata da piedi umani, emette quel suono che tutti conosciamo… E si fa filosofico (di quel tipo di filosofia asistematica che non offre risposte e invita al dubbio) come in questo brano (che cito a metà):

“Sarà così dappertutto, se c’è un dappertutto, in questo sfracello di lucine che bucano il buio in questa notte fredda e nell’oscurità più profonda? Ci sarà qualcuno che ci sta vedendo, da uno di quei pianeti che orbitano attorno a quelle masse di gas incendiato che da lontano ci appaiono stelle bianche, come pensa quell’uomo che sono andato a trovare in quella stalla, in mezzo a quelle bestie che hanno viaggiato trasognate nell’iperspazio? Cosa sarà la vita per loro? Perché se ne andranno in giro per l’universo dentro quelle uova di luce senza guscio? La loro vita sarà infelice come la nostra? Anche per loro solo il dolore e il male porteranno distrazione, almeno per qualche istante, all’infelicità? Avranno anche loro quel sogno breve e crudele che è stato chiamato amore?” (id., p. 142).

Moresco, con questa ennesima prova, continua a sollecitare il lettore a porsi domande cui è impossibile trovare risposta; e continua a stregarci con il suo stile poetico, e filosofico, e anche piuttosto apocalittico. Moresco, uno dei pochi autori “apocalittici” e “non integrati” di oggi: uno di quelli che sa rappresentare l’Apocalisse senza paura o vergogna, senza tentennamenti, e che sa condurre il lettore verso i confini del mondo (verso l’infinito, e oltre).

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