Elena
Ferrante ci afferra e ci trascina giù,
ne
I giorni dell’abbandono
E’ difficile parlare di un
romanzo quando questo romanzo ti colpisce, ti fa restare a bocca aperta,
t’impedisce di vivere tranquillamente, ti obbliga a leggere fino a tarda ora
nella notte, t’intrattiene nel senso meno piacevole del termine
“intrattenimento” (nel senso, cioè, che ti trattiene a sé, come se si trattasse
d’una strana calamita) come riesce a fare I
giorni dell’abbandono, di Elena Ferrante (Roma, e/o, 2002).
E’ difficile e complicato
parlare di un romanzo scritto in un italiano perfetto pur essendo questo
italiano il frutto di un’attenta, precisa operazione “a incastro” tra
l’idioletto personale dell’autrice (d’origini napoletane) e l’italiano
apparentemente standard che possiamo captare dalla televisione e da un comune
dialogo tra cittadini che s’incontrano per strada e si confessano i propri
acciacchi comuni e quotidiani.
Qui l’acciacco è dei più
tremendi e tristi e sconvolgenti (seppure si tratti di un fenomeno quotidiano e
comune, che capita a tutti e che capita ogni minuto): Olga, moglie trentottenne
e felice di Mario, ingegnere affermato e professore universitario, viene
abbandonata da questi per un’altra (Carla, la figlia appena ventenne d’una loro
comune amica).
A chi non sarà capitato di
assistere al dolore di colei che viene lasciata? (o anche di colui, perché – da
che mondo è mondo – non sono solo gli uomini a lasciare, ma pure le donne,
diciamocelo). A chi non sarà capitato di provare il dolore che Olga s’impegna a
mettere nero su bianco nelle pagine di un diario che poi, chissà, forse non è
altro che il libro che stiamo leggendo?
Tutti sappiamo quello che si
prova in certi momenti: spaesamento, vertigini, senso d’inutilità totale e
d’impotenza assoluta. Senso di abbandono, appunto, dovuto al radicale
cambiamento che imprime colui che se ne è andato e ha lasciato un vuoto fisico
(a partire dal lato del letto matrimoniale che nessuno rimpiazzerà, almeno per
il momento).
Elena Ferrante è in grado di
farci sprofondare nella disperazione e nell’angoscia più cupe della
protagonista con una narrazione che assume i tratti del racconto del terrore (o
del racconto surreale e onirico). Nei capitoli centrali, il lettore vive
letteralmente dentro l’incubo che prima blocca e immobilizza e poi scuote e
sballotta la povera donna, alle prese con chiavi di casa che non girano (o che
si perdono), con Otto, un cane lupo che sta morendo per un insetticida (o forse
una polpetta avvelenata), e con Gianni e Ilaria, i due figli piccoli, rimasti
insieme alla madre, quando il padre è fuggito dall’amante.
Sono molti i temi scottanti
che tocca l’autrice in questo romanzo che, a tratti, assume l’andamento del
racconto poliziesco (ed è incredibile come l’uso abbondante dell’imperfetto nei
verbi non rallenti, ma anzi, acceleri l’azione nei punti nevralgici della
trama). Ne cito uno su tutti: quello della presenza dei morti nella mente dei
vivi. Olga è affascinata e, al contempo, alquanto angosciata dai ricordi di una
vecchia signora che, nella Napoli della sua infanzia, era stata abbandonata dal
marito. I vicini la compativano, la donna abbandonata era vista come una sorta
di “malata”, una che non sarebbe mai più riuscita a rifarsi una vita. Olga la
ricorda e, in alcune scene del libro, sembra che questo spettro del passato sia
tornato in vita; Olga sente quasi la tentazione di parlarci, sembra parlare con
lei, ma poi si ferma e riflette: “Ci portiamo nella testa fino alla morte i
vivi e i morti. L’essenziale è imporsi una misura, per esempio mai parlare alle
proprie parole” (id., p. 136). Che i morti ci accompagnino è un dato di fatto;
così pure colui o colei che ci ha abbandonati. L’importante è non cedere al
ricatto dei ricordi, non credere che il fantasma di chi non c’è più (perché ha
smesso di amarci o se ne è andato con un’altra o con un altro) possa ancora
parlarci. Non si può parlare con le proprie parole (quelle che lanciamo al
vento o che mettiamo una dietro l’altra nelle pagine di un diario). Il rischio
che si corre è quello di diventare matti. Eppure, sono proprio le parole
“nostre”, quelle che diciamo spesso solo a noi stessi, quelle che ci salvano e
ci curano, quelle che ci aiutano ad esorcizzare il passato (e a tenere a bada
il fantasma della persona amata che non è più disposta a vivere accanto a noi).
Elena Ferrante ha il coraggio
di mettere quelle parole una dietro l’altra, nelle pagine del diario della
protagonista, per mostrarci fino a che punto si può arrivare quando sembra che
la vita non ha più senso e che l’amore fa solo male; Elena Ferrante – un po’
come Antonio Moresco – ha il coraggio di spingersi fino ai limiti del baratro e
di piegare l’italiano a fargli dire cose che non sapevamo di sapere. E I giorni dell’abbandono è in grado di
afferrare il lettore, di trascinarlo giù e di farlo tremare proprio sul bordo
dei tanti baratri che ci portiamo dentro.
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