Philip
Dick e le sue Confessioni di un artista
di merda, ovvero: come si può scoprire uno scrittore di razza per puro caso
Confesso di non avere mai letto prima nemmeno una riga
dell’autore di Ma gli androidi sognano
pecore elettriche? (romanzo da cui Ridley Scott ha tratto l’ormai classico Blade Runner). E confesso che, prima di
leggerlo, ero titubante, anche perché, tra le altre cose, Dick viene spesso
catalogato tra gli autori “di genere” e, di conseguenza, “minore” (come se
l’appartenere ad un genere canonizzato – sia esso il giallo, il poliziesco, il
rosa o il fantascientifico, come è il caso di Dick – fosse sinonimo di “autore
di secondo livello” o “di categoria inferiore”; e vi basti pensare a Georges
Simenon e ai suoi romanzi “di genere”, appunto, “poliziesco”). E confesso di
avere scelto questo libro spronato più dal titolo che dal contenuto… E confesso
pure che, a lettura finita, questo Confessioni
di un artista di merda (Roma, Fanucci, 1998) mi è piaciuto, perché: a) mi
ha scosso; b) mi ha fatto scoprire che Dick è un grande scrittore; c) mi ha
riconfermato che non sempre “autore di genere” è sinonimo di “bassa o scarsa
qualità”.
Philip Dick è un grande scrittore perché sa gestire la
trama con maestria consumata; ogni capitolo è narrato in prima persona da uno
dei quattro personaggi principali della storia; ogni capitolo è dunque
l’incarnazione della verità così come essa è letta e interpretata dal singolo
personaggio; inutile aggiungere che queste verità parziali s’incastrano con le
altre cozzando su vari nodi centrali: chi ha ragione? Chi ha operato secondo il
bene? E perché quell’altro ha operato facendo più male possibile agli altri
tre? Ma chi ha ragione in fondo tra i quattro?
Philip Dick è uno scrittore di razza anche perché riesce a
farci sentire il respiro di questi quattro personaggi: riesce a ricreare una
determinata porzione dell’America degli anni 50 proprio a partire dalle vite
singole di questi singoli individui, inquadrati da vicino, con primi piani di
un realismo crudo che ti obbliga a prendere parte all’azione, a propendere per
l’uno o per l’altro…
Charley Hume è l’imprenditore che si è fatto da solo e che,
per amore di sua moglie, costruisce un’enorme casa in una tenuta in aperta
campagna in un paesino sperduto dell’Illinois (o della California?). Sua moglie
Fay è un’isterica che non riesce ad amare altri che se stessa; mamma apatica di
due bambine, mal sopporta la convivenza forzata che si viene a creare nel
momento in cui Charley accetta di accogliere in casa Jack, suo cognato,
fratello alquanto pazzo di Fay (Jack raccoglie materiale scientifico sugli UFO
e crede fermamente nell’imminente fine del mondo). Il trio viene ulteriormente
messo alla prova dall’arrivo di una giovane coppia di freschi sposini, Nat e
Gewn, due giovani di belle speranze che iniziano a frequentare la casa di
Charley per poi sperimentare sulla propria pelle il tradimento, la disillusione
e l’istinto suicida.
Philip Dick è bravissimo nel condurci all’interno della
mente di Charley, Fay, Jack e, infine, Nat, fino alle scene catartiche finali,
quelle scene che non ti aspetti e che ti fanno tremare e ti spingono a pensare,
dopo aver chiuso il libro: “Ma che mostro è costui! Che mente è quella di uno
scrittore che pensa queste cose!”.
La scena forse più crudele e apocalittica è quella della
strage degli animali della fattoria di Charley: appena ripresosi da un infarto
che lo ha obbligato a una pausa forzata in ospedale e subito dopo aver appreso
da Jack che sua moglie lo ha tradito con Nat, l’imprenditore torna a casa e
spara all’impazzata alle anatre, ai cavalli, ai maiali, ai cani e ai gatti che
popolavano la sua tenuta. Per odio verso Fay. Per ripicca verso Nat, che crede
di essere davvero innamorato di una donna molto più matura (e sadica) di lui…
Non è sempre proficuo accostare la vita dell’autore a
quella che questi attribuisce ai suoi personaggi: però non può non essere un
caso che Philip Dick cadde in depressione e passò molti guai per i vari
matrimoni sbagliati contratti con varie mogli (si dice che qualcuna tra loro
spinse Dick all’alcolismo e, poi, all’uso massiccio di droghe pesanti).
Quello che viene fuori da questo libro è un duplice quadro
realistico: quello dell’America di quel periodo (immediatamente anteriore alla
Guerra Fredda); e quello dell’istituto del matrimonio, una vera gabbia, o un
vero manicomio, per chi, come Charley, si trova a viverlo come condanna.
E ogni tanto capita pure d’imbattersi in frasi dall’accento
shakespeariano, frasi come questa: “Siamo ombre che fluttuano nell’aria,
dirette verso il nulla”. Tra Amleto e Macbeth, Dick si diverte a dipingere
l’orrore e a farci sperimentare l’inferno sulla terra.
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