Recensiti
e recensori
Roma, ah, la capitale, che
città anomala! Che anomalia cittadina e quotidiana! Che quotidiana lotta per la
sopravvivenza urbana!
Roma, tu sei peggio del
“ventre di Parigi”, sei un agglomerato mastodontico di vite vissute ai limiti
dell’esaurimento nervoso… Sei spietata e nobile, sei assurda e romantica, sei
tutto e il contrario di tutto, sei tu, sola nell’Universo, a farci sentì tutti
un po’ più boni!
Ed è per questo con grande
curiosità che aspetto il momento in cui mia sorella tornerà a chiedermi:
“Andiamo al Verano?” (il cimitero più famoso e più grande della capitale;
l’unico cimitero che io conosca in cui ci sono dei bus-navette che ti
permettono di spostarti da un’ala all’altra del camposanto; il Verano, specchio
fedele dell’enormità di Roma, della sua estensione per eccesso).
Ma dov’è sepolto Gramsci?
Sorella, ricordamelo: dov’è che possiamo andare a contemplare le spoglie
mortali di Antonio Gramsci? Il cimitero inglese? E dove si trova? Dov’è il
posto?
Si da il caso che mia sorella
stia per completare la sua tesi della laurea triennale su Pier Paolo Pasolini,
o meglio, su “L’immagine di Roma in alcune opere di Pier Paolo Pasolini”. Tra
queste mia sorella ha scelto di scrivere sulla famosa raccolta poetica Le ceneri di Gramsci. E visto che in
questo periodo siamo tutti e due residenti a Roma, ha pensato bene d’invitarmi
e di accompagnarla in questa scorribanda melancolica, in questa passeggiata o
tuffo nel passato recente della storia politica (e lirica) d’Italia…
Le domande che sorgono
spontanee sono tante: ad esempio, perché Pasolini amava tanto Gramsci? O
meglio: cosa amava della sua figura? E perché, in una delle mie poesie
preferite della famosa raccolta, quella che s’intitola “Il pianto della
scavatrice”, dice quei versi che fanno… “Solo l’amare, solo il conoscere /
conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto”?
Sono queste alcune delle
domande che mi pongo mentre faccio a botte con i miei prossimi sulla metro; la
linea B è un disastro, si ferma a ogni pie’ sospinto… E mi domando anche
perché, nel mio lavoro, quando uno si azzarda a scrivere una recensione debba
assumere un tono bonario o non troppo negativo nei confronti del recensito… Ma
perché?
Si tratta di un saggio di
critica letteraria; uno di quei libri che leggeranno solo gli specialisti. A
chi diavolo può interessare la mia recensione se non a un pubblico molto, molto
ristretto di specialisti? A chi diamine importa che io tratti male (si fa per
dire) l’autrice di quel saggio? Quattro su cinque colleghi dicono che la
recensione è ben scritta; tre su cinque dicono che sono troppo duro, spietato,
saccente, spocchioso o, peggio, lezioso, quando mi metto ad elencare (nella pars destruens della stessa) uno ad uno
tutti i difetti che riscontro nell’impianto del saggio…
Pasolini ha mai scritto recensioni?
Credo proprio di sì. E le avrà mai lette le recensioni ai suoi primi romanzi
importanti, ai suoi film, alle sue raccolte poetiche? Credo di nuovo proprio di
sì. E poi, diciamocela tutta, cosa spinge il recensore a recensire il
recensito? Qual è quella molla che scatta e che ti fa dire: “Ora gliene dico
quattro, a questo qua, ora vediamo se la gente capisce che razza di spazzatura
si pubblica oggigiorno!”. Oppure: “Ma no, ma non capisce nulla, questo qua, so
io qual è la verità, qual è il nocciolo della questione!”.
Siamo tutti mortali, per
fortuna. E se penso che, in futuro, sia io che la recensita non ci saremo più,
se penso che anche noi, come Gramsci, come Pasolini, diventeremo “cenere”, beh,
allora mi rassereno un po’, e smetto di farmi tante domande, e mi godo il
Lungotevere, fuori dalla calca di metro e autobus, a contatto con la natura
(piena di smog) e con la visione del fiume (pieno di cartacce), il povero e
possente Tevere che scorre senza mai posa, senza mai fermarsi…
A proposito, sorella: quand’è
che andiamo al cimitero?
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