La morte in faccia
Mentre io mi
dilettavo di ricerche su James Joyce (e rileggevo a pezzi la monumentale “biografia”
di Richard Ellman), mia nonna aveva un infarto senza nemmeno rendersene conto.
Quando sono andata a prelevarla da casa sua per catapultarla al Pronto Soccorso
mi ha solo detto che sì, che sentiva un leggero pizzicore all’altezza del cuore
e che aveva come un capogiro.
Mio nonno ha
mantenuto i nervi saldi e quando poi l’infermiere che ci ha accolti è uscito
dalla sala dei medici e ci ha chiesto: “Da quando è in queste condizioni?”, ecco, solo allora ho capito la gravità di quello che era successo; in macchina no, perché
in macchina mia nonna parlava e io le chiedevo se voleva bere dalla
bottiglietta, se voleva che abbassassi il finestrino, se le dava fastidio la
musica, se voleva che guidassi più piano…
Col senno di
poi è normale (forse quasi “automatico”) tornare a quei secondi, a quei minuti,
a quelle ore che hanno preceduto l’incidente che poteva risultare fatale. Uno
si ferma e si domanda: cosa sarebbe successo se fossi arrivato con 10 minuti di
ritardo? Cosa, se al Pronto Soccorso non avessero capito subito che si trattava
di vita o di morte e hanno deciso immediatamente di trasferire mia nonna in
elicottero in un ospedale il cui reparto di cardiologia è all’avanguardia, tra quelli
esistenti nel Centro Italia…
E poi uno si
ferma a riflettere anche su quelle domande, poste per gentilezza, e sugli
oggetti o i fenomeni cui quelle domande si riferiscono: vuoi bere un po’ d’acqua?
Vuoi un po’ più di aria dal finestrino? Ti da fastidio la musica? Che musica
stavo ascoltando mentre mia nonna aveva appena avuto un infarto – senza nemmeno
rendersene bene conto – e io correvo all’ospedale? Avrebbe potuto essere l’ultima
cosa che mia nonna ascoltava in vita, se i medici non fossero stati bravi a
capire che si trattava di un infarto e che poteva risuccedere di lì a poco
(arterie ostruite: uno non ci pensa e cammina per strada, come se niente fosse,
ma basta avere una sola arteria ostruita per rischiare di morire, il sangue che
non arriva più al cuore, la pompa che fa marciare l’intera macchina umana, il
cuore… i cui battiti ci accompagnano sin dall’istante in cui nasciamo e che
notiamo solo quando ci poggiamo una mano sul petto, o quando appoggiamo la
testa sul petto di un’altra persona, magari la persona amata, quella di cui
siamo follemente innamorati e lei ci chiede, candida: “Senti come batte forte?”).
Ogni attimo,
in realtà, potrebbe essere l’ultimo, quello che segna il passaggio dalla vita
alla morte.
Ne ho
parlato – con tatto, con calma, con ironia anche – con mia nonna, che ora, per
fortuna, sta bene… E lei mi ha guardato seria e mi ha detto che comunque se lo
sentiva che c’era qualcosa che non andava e che si è spaventata moltissimo. Mia
nonna sapeva, anche se non era cosciente di sapere, che era stata vicina alla
morte.
“Ha visto la
morte in faccia”, si dice, in italiano, per indicare lo scampato pericolo. E
mentre mia nonna parla, io ripenso alla musica, all’aria, all’acqua, a tutte
quelle cose che ci circondano e a cui non diamo importanza più di tanto, perché
ci sono, perché sono lì, sempre a nostra completa disposizione, e penso che mia
nonna – mentre io correvo per portarla in ospedale – non si sarà soffermata su
nessuna di quelle cose e, anche se non ne ho la certezza e questo ancora non
gliel’ho mai chiesto, credo che in quel momento mia nonna fosse concentrata
solo sulla vita, e sul fatto di non morire; aveva visto la morte in faccia, ma
evidentemente ha avuto una gran voglia di scacciarla dalla sua vista; ha voluto
vivere e continuare a respirare, malgrado le ostruzioni delle arterie. E penso
anche che ha avuto un gran coraggio e una grandissima fermezza d’animo a non
soccombere a quella paura, mentre io parlavo e domandavo e parlavo quasi per
esorcizzare la paura che non ce la facesse.
“Ha visto la
morte in faccia”. E non deve essere – per nessuno – un bello spettacolo.
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