martes, noviembre 19, 2013

Un filosofo al cinema: Eugenio Trías, De cine: aventuras y extravíos (Barcelona, Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores, 2013)

Quando un filosofo si predispone a parlare di cinema, in genere, il rischio è quello di sovra-interpretare i testi filmici presi in esame, ovvero, quello di vedere nelle immagini in movimento schemi mentali o ragionamenti logici che il regista nemmena sospettava, al momento di girare o montare quelle stesse immagini.

Eugenio Trías, il filosofo "del limite", evita questo errore parlandoci in modo appassionato dei suoi registi (e dei suoi film) preferiti, con tatto, con ironia, con intelligenza. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla quasi totale coincidenza di gusti. Trías studia e analizza, racconta con trasporto e ricorda le scene più belle di alcuni dei film dei registi che più ho amato anch'io nel corso degli anni (anche se ammetto che ultimamente sto perdendo colpi, non sono più così "cinefilo" come una volta... Mancanza di tempo? Scarsità di film memorabili o che ti restano impressi nella memoria? Biglietti del cinema troppo cari?).

Ecco, dunque, che il primo capitolo si apre con una riflessione sulle città (reali o immaginarie) nei film di Fritz Lang, il geniale autore di Metropolis (1927) e di M, il mostro di Düsserdolf (1931) (due film estremi sul Male, due esempi classici di cinema "espressionista" in cui la distorsione o la manipolazione dell'immagine è finalizzata a creare un universo in cui tutto è incerto e instabile e in cui l'essere umano diventa una specie di "burattino" o "pupazzo" nelle mani del Potere - o del Caso o del Destino).


Il capitolo 2 si concentra, invece, su Alfred Hitchcock, il "re del terrore" (o il "maestro della suspense"). A lui l'autore ha dedicato un intero saggio, dal titolo Vértigo y pasión (del 1998, se non erro) sul film omonimo (in italiano noto come La donna che visse due volte, del 1958). Qui Trías ripercorre le tappe della filmografia del regista americano mostrandoci come spesso e volentieri le sue siano storie d'amore, più che di paura (o del terrore). Si pensi a Rebecca, la prima moglie (1940) - film che anticipa diversi temi e aspetti iconografici di Vertigo - o a Marnie (1964): due opere che mettono in scena in modo drammatico due forme "malate" di amare. O si pensi ancora a quello che - a mio modesto giudizio - è il film migliore del Nostro (o dovrei dire: del "Mostro"?): mi riferisco a Rear window (o La finestra sul cortile), del 1954, con l'affascinante e splendida e splendente Grace Kelly e il simpatico, riflessivo e impaurito James Stewart, implicati in una specie di guerra interna tra gatti e topo in cui l'amore trionferà solo alla fine, dopo peripezie e scivoloni che rischiano di condurre alla morte.


Il capitolo 3 ripercorre, invece, i successi planetari di un altro genio come Stanley Kubrick (uno che di sicuro ammirava Hitchcock, o almeno credo). Dell'autore di 2001: A Space Odissey Trías analizza, in particolare, e con grande brio, Shining (1980), film dell'orrore filosofico, e Eyes Wide Shut (1999), film sull'adulterio e sull'eterna lotta tra sogno e realtà, tra Eros e Thanatos (sotto il segno di Freud).


Trías ci spiega come Kubrick sia sempre stato affascinato da una cosa e cioè: da come l'essere umano razionale possa fare un buono o un cattivo uso della stessa "ragione", uno degli strumenti più raffinati (ma anche tra i più pericolosi) che abbiamo. Perché si salva il piccolo Dany-Teseo nel labirinto dell'Overlook Hotel? Perché sa tornare sui suoi passi e cancellare le orme che suo padre (Jack Torrance-Minosse) insegue come un disperato fino a che non trova la morte per congelamento all'interno di una delle tante trappole del labirinto stesso. E perché Tom Cruise si salva dalle grinfie dei ricchi della mega-orgia in villa? Perché smette di cercare la verità (quella cruda verità che sua moglie, Nicole Kidman, gli ha fatto intravedere in una nottata a base di sesso e cannabis).

Col cap. 4 passiamo a un altro genio mostruoso, ossia, a Orson Welles. Dell'autore di Citizen Kane (o Quarto Potere, del 1941) Eugenio Trías studia, in particolare, The Magnificent Ambersons (L'orgoglio degli Amberson), del 1942, un'opera in cui l'invenzione precedente del "piano-sequenza" trova la sua migliore esplicitazione. 


Non mancano ottime analisi di quell'altro capolavoro wellesiano che è Touch of Evil (1958), da noi noto come L'infernale Quinlan, con una malinconica Marlene Dietrich nei panni di una zingara che legge le carte. Con questo film si capisce come l'analisi etica dei personaggi sia un tema caro a Welles e che lo ha assorbito fino ai film tratti da William Shakespeare e all'incompiuto Don Quixote.

Il cap. 5 studia il tema del tempo nel cinema di Andrej Tarkowskij, il regista di opere raffinate, complesse, affascinanti, perturbanti come L'infanzia di Ivan (1962), Solaris (1972) e Stalker (1979). Trías ci fa notare come l'uso del "piano-sequenza" sia finalizzato a quello che lo stesso autore russo chiama "scolpire il tempo": non interessa tanto narrare (o raccontare) cosa succede all'interno dell'inquadratura, quanto far vivere (in differita) allo spettatore quanto sta succedendo (in diretta) all'interno della stessa. Ogni oggetto, ogni foglia che cade, ogni specchio su cui si riflette l'immagine diventano elementi fondamentali per "sospendere" il movimento e "scolpire" il tempo, in modo drammaticamente incisivo (e lirico, come accade nel finale di Stalker).


Siamo arrivati al cap. 6 e c'imbattiamo in Ingmar Bergman, un autore che Trías non sa bene come catalogare perché - cito non a memoria - "i suoi temi non sono sintetizzabili in un'unica formula". Se al filosofo piacciano soprattutto film come Il settimo sigillo (1957) e Persona (1966), in cui i conflitti interni sono rappresentati per immagini attraverso "invenzioni" rimaste nell'immaginario collettivo come la partita a scacchi tra Antonius Blok e la Morte o come il doppio volto mostruoso tra le due protagoniste del secondo film citato, io preferisco Il posto delle fragole (1957) e, soprattutto, Sussurri e grida (1973), vero e proprio film horror sul senso della vita e sui limiti del corpo umano (mai visto così da vicino il volto di una persona che si appresta a morire dopo una lunga malattia incurabile).


E con il capitolo 7 arriviamo alla conclusione del libro, dedicata all'unico regista ancora vivo (e speriamo che ci resti ancora per molto): David Lynch, l'inventore di Twin Peaks ("Chi ha ucciso Laura Palmer?"), l'autore di opere magistrali come Blue Velvet (1986) o Una storia vera (1999). 


Di Lynch Trías studia soprattutto Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), spiegandoci come all'autore americano piaccia inventare mondi immaginari in cui il principio della verosimiglianza e quello di non contraddizione saltino non tanto (e non solo) perché nella "finzione" tutto è permesso, quanto (e soprattutto) perché i film di Lynch sono mondi immaginari che (si) aprono verso altri mondi in cui il mistero, l'inconscio, l'onirico sono tutti ingredienti (o elementi) onnipresenti e posti al servizio della "messa in scena" del conflitto (tra realtà e sogno, tra bello e brutto, tra razionale e irrazionale, tra bene e male, tra giusto e ingiusto). A Lynch, di fatto, interessa più l'aspetto conflittuale che quello pacificatore. I suoi film sono continui attentati contro il buon senso, il decoro, il bello, affinché lo spettatore sia in grado di porsi dall'altro lato del "limite" (concetto caro a Trías che, non a caso, viene chiamato anche "filosofo del limite").

In conclusione: la domanda che potremmo porci a lettura finita del libro è: "Ma che cos'hanno in comune questi 7 registi?". E la risposta che (mi) do è la seguente: "Tutti e 7 sono stati in grado di re-inventare il mondo reale in cui vive - e vegeta - lo spettatore allo scopo di trasportarci in mondi "altri" in cui il dubbio, l'interrogazione costante sul senso del nostro esistere, la riflessione su chi siamo sono elementi portanti di "messe in scena" che restano impresse (per sempre?) nella mente di chi guarda (o ha il coraggio di guardare) sempre oltre..."

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