The Wolf of
Wall Street
Scrivo sotto l’effetto ancora inebriante
della visione (in anticipo d’un giorno rispetto all’uscita ufficiale in Italia)
dell’ultimo film di Martin Scorsese, The
Wolf of Wall Street: che gran film, che interpretazione da Oscar, quella di
Leonardo Di Caprio, che ritmo sfrenato, quello che il regista di Taxi Driver dà al tutto!
Erano
anni che non uscivo da una sala con tanta adrenalina addosso: il regista
americano è abilissimo a trasmettere allo spettatore il senso di “spreco” e di
“sfregio” morale che incarna il protagonista, un broker che in pochi mesi
riesce a occupare un posto d’eccezione tra gli squali della finanza della borsa
di New York (tutto vero – o “basato su una storia vera”, come si suol dire – e
tutto narrato per filo e per segno nel libro omonimo pubblicato da Jordan
Belfort, il vero “lupo di Wall Street” cui s’ispira il film).
Scorsese
realizza una messinscena da grand guiñol
della durata di 3 ore riuscendo in una doppia impresa: a) non annoiare mai lo
spettatore (in alcune scene “rallentate” si nota, in realtà, un tocco “alla
Tarantino” – cfr. quella della lotta tra Belfort e il suo socio in affari a
suon di fili del telefono e sotto l’effetto di una droga scaduta da anni); b)
spingere lo spettatore a sposare il punto di vista immorale e schizofrenico del
protagonista stesso (tu guardi e sai che ciò che stai guardando è contrario a
molte norme non scritte dell’etica di un essere umano “normale” eppure… provi
un’innaturale simpatia verso questa specie di Robin Hood “al contrario” – ruba
ai ricchi per dare a se stesso e diventare più rico dei ricchi; e il punto è
che più guardi le imprese di un tale lestofante e più pensi: “a chi non
piacerebbe avere una casa, una macchina, una moglie come le sue…).
Non
racconterò il finale, ma, se parliamo del messaggio etico che si cela dietro lo
“spettacolo”, è inevitabile scorgere nell’ultissima inquadratura un ghigno
spietato del regista alla coscienza dello spettatore: “e tu cosa faresti con
tanti soldi? E tu come ti comporteresti in certe situazioni? Perché non imiti
uno come Belfort? Cosa te lo impedisce?”.
Sesso,
droga, ambizione sfrenata, indifferenza arrogante verso ogni tipo di norma:
Belfort è una specie di Faust in giacca e cravatta (firmate entrambe) che ci
dice che il sogno americano è (ancora) possibile, che in una giungla
(finanziara) senza pietà come Wall Street vince il più forte e il più
scatenato, che migliorare la propria condizione economica si può (sempre).
E
se la legge ti frena e l’FBI ti sbatte in carcere? Nessun problema: pagando
laute cauzioni, si può evitare la pena più dura e tornare ad essere “vincenti”
(inevitabile qui per lo spettatore italiano non pensare al caso nostrano di
Berlusconi).
Scorsese
ci fa fare un giro all’interno del luna-park della finanza senza risparmiarci
nulla, anzi, facendoci vedere anche gli aspetti più ridicoli del successo senza
limiti (e per me resterà da antologia la scena in cui – in preda agli spasmi
della droga – Di Caprio tenterà di tornare a casa in macchina rotolando per le
scale come un neonato che sa appena strisciare a gattoni – anzi, a questa scena
ne aggiungo una seconda, quella in cui la moglie tradita decide che è giunto il
momento di tenerlo a stecchetta, andrà in giro sempre nuda per casa, ma non gli
si concederà più – e, a riprova del suo discorso spalanca le gambe, ignara
della micro-spia che registra il tutto da dietro l’occhio di un orsetto di
peluche per la gioia delle guardie del corpo: Belfort si inginocchia, prova ad
avvicinarsi per baciarla, ma la donna modella lo respinge con i tacchi).
Un
film da vedere e rivedere, un po’ come Fuori
orario (anch’esso ambientato nei “fantastici” e rampanti o volgari anni 80,
solo che lì il giro sulla giostra è ancor più surreale e grottesco di questo –
con un altro finale da antologia).
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