martes, julio 08, 2014

Debolezze umane, umani (sempre troppo) deboli



Miguel de Cervantes, il “raro inventor” del Quijote, il romanzo che, a detta dei più, ha dato origine al genere del “romanzo moderno”, così come ancora oggi lo intendiamo e lo godiamo, scrisse anche altri libri, meno noti al grande pubblico e studiati, amati e letti quasi soltanto dagli specialisti (e non mi riferisco solo ai cosiddetti “cervantisti”, gente che viene stipendiata solo per scandagliare il significato più remoto o nascosto o profondo delle opere del Monco di Lepanto). Tra queste, possiamo certamente citare il “famoso” Viaje del Parnaso, apparso nel 1614 e, quindi, solo 1 anno prima dell’apparizione della “Segunda Parte” del Quijote e ben 9 anni dopo quella della “Primera Parte” dello stesso.

Il cap. 4 dell’opera è uno dei più noti perché qui l’autore immagina d’incontrarsi faccia a faccia (e nientepopodimenoche) con Apollo; è uno stratagemma letterario piuttosto efficace (e anche molto ironico – quando parliamo di Cervantes non dobbiamo mai dimenticare l’ironia, né, tantomeno, l’autoironia) che permette all’autore di auto-elogiarsi o di riflettere sulla propria “carriera”, sui successi e le sfortune, sugli elogi e sulle critiche a volte spietate dei suoi contemporanei (che oggi nessuno ricorda più)… Nei vv. 64-66 afferma:

“Con mi corta fortuna no me ensaño,
aunque por verme en pie como me veo,
y en tal lugar, pondero así mi daño”.

Ovvero, traducendo liberamente:

“Con la mia poca fortuna non mi arrabbio,
Anche se nel vedermi in piedi come mi vedo,
E in questo luogo, così rifletto sul mio insuccesso”.

Cervantes sapeva quale tortuoso viaggio aveva dovuto attraversare per arrivare al Parnaso; conosceva bene la società del suo tempo e le sue meschinità, i sotterfugi e gli inganni, i trucchi del mestiere e gli sgambetti dei rivali. Aveva patito il carcere ad Algeri; era stato in guerra contro i turchi; aveva svolto gli incarichi più ingrati per il suo amato Re; assisteva – impotente – alla progressiva decadenza della sua Spagna imperiale; aveva pure avuto un matrimonio infelice o non troppo felice, lui, l’unico “maschio” in una casa abitata da molte donne (che, forse, gli rendevano la vita da scrittore impossibile). Eppure, i versi successivi ce lo mostrano in tutta la sua umanità: Cervantes non si arrabbia sul serio contro la sua “poca fortuna” (o, diciamolo pure apertamente, contro la sua “immane sfortuna”), non recrimina, non si piange addosso, non se la prende più di tanto, perché, nei vv. 67-68 afferma:

“Con poco me contento, aunque deseo
mucho”.

Ovvero, come è facile capire:

"Mi accontento con poco, anche se desidero
molto".


Quant’è umano, quant’è fragile, quant’è simile a noi questo scrittore “geniale” che si accontenta con poco ma desidera molto! E il lettore lo intuisce subito, s’identifica immediatamente con Cervantes, qui, perché, in effetti, è così anche sul piano della realtà: quante volte avremmo pensato la stessa cosa (anche se magari non l’abbiamo mai messa per iscritto, nero su bianco, né, tantomeno, in versi…).

E l’essere umano è così, debole e fragile perché "molto desidera"; in realtà, a guardare bene, e riflettendoci meglio, quando qualcuno dice che “si accontenta con poco” (o “di poco”) sta mentendo o sta sottacendo la verità: siamo franchi, nemmeno Cervantes – evidentemente e al di là di quello che dice qui – si accontentava; diciamo piuttosto che furono le “condizioni esterne” particolarmente avverse a obbligarlo ad accontentarsi; ciò che va sottolineato è la seconda parte del verso: “anche se desidero molto”. È qui l’umanità di uno come Cervantes. È in questa seconda parte che ci vediamo rispecchiati in chi tanto ha patito in vita.

Siamo fragili a causa dei nostri desideri; il desiderio ci porta sulla cattiva strada, ci fa calpestare i desideri degli altri, a volte, ci spinge al crimine, all’egoismo, alla pazzia (cfr. Don Quijote e la sua mania per la letteratura cavalleresca). Siamo vittime dei nostri desideri: c’è chi mangia troppo, chi beve di nascosto, chi desidera (costantemente) la donna d’altri, chi stravede per una donna che sa già che lo maltratterà e chi si lascia picchiare dal fidanzato perché crede che quello sarà il suo “uomo ideale” e che in amore si soffre; chi si vendica della ex pubblicando le foto sexy o direttamente hard su internet e chi auspica il male arrivando a fare male físicamente al proprio datore di lavoro; chi ruba in modo compulsivo e chi accusa di furto un innocente; chi ha un infarto in mezzo alla strada perché fuma e mangia troppo e si ripromette di smettere di fumare e di mangiare in modo più sano e chi sa che fumando e abbuffandosi si avvicinerà velocemente alla morte; c’è perfino chi desidera così tanto l’annichilamento da arrivare a suicidarsi; c’è chi per ambizione e sete di potere è disposto ad assoldare un killer e riuscire così ad eleminare i suoi rivali; c’è chi – per colpa del desiderio – diventa rivale dei suoi stessi genitori; c’è chi arriva ad architettare il delitto perfetto al fine di eliminare i propri genitori dalla faccia della terra (i genitori, ovvero, coloro che ti danno la vita)…

Nessuno si “accontenta con poco”, in realtà, e forse la maggior parte dei crimini di cui veniamo a conoscenza vengono commessi proprio perché quasi tutti noi “desideriamo molto”. È il troppo desiderare che ci porta alla rovina. Come sarebbe più giusto e sano e calmo un mondo in cui, davvero, potessimo dire, insieme a Cervantes:

“Mi accontento con poco, anche se desidero
molto”.


Che utopia. Che paradiso. Che calma e serenità si respirerebbero in giro…(ma sappiamo bene che si tratta di un impossibilia).

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