martes, octubre 24, 2006

La sala del teatro è ancora vuota, ma in prima fila c’è lui, il prof. Jens von Prelzer, che mi guarda e gli si illumina il viso, da quanto tempo che non ci vediamo, come sta, professore, per me è sempre un piacere rivederla, una stretta di mano, un sorriso sincero, dopo ben quattro mesi di assenza, era tanto che non passavo dall’Università, è molto bello e nuovo questo teatro, vero? Accanto al prof., un’altra docente, di Palermo, che mi osserva e sembra riconoscermi, ma non ricorda (i primi segni dell’Alzheimer?). Poi il rito ha inizio: ringraziamenti, al Dipartimento che ha permesso questo congresso, al Direttore del Dipartimento, al Direttore della Facoltà, al Rettore stesso dell’Università. Riconosco qualche volto, invecchiato, per forza di cose, nel corso degli anni. Stringo la mano a ricercatori (quasi tutti filologi romanzi) che vivono nel limbo e nell’incertezza (prima di poter occupare stabilmente una cattedra). Sorrido anch’io all’ipocrisia mostrata da tanti squali ormai ordinari (in spagnolo “ordinario” vuol dire anche “sporco”, “sporcaccione” o “vile”). Questa è la vita, mentre beviamo un caffè molto forte in bicchierini di plastica e senza zucchero, tra assistenti e assegnisti o semplici dottorandi, assaggiamo dei mini-croissant alla crema o al cioccolato. Si parla di Don Quijote, povero idalgo, chissà quante maledizioni avrà mandato Cervantes a tutti questi specialisti che si ingegnano nello smontare un’opera immortale con le lenti della critica letteraria, l’anno scorso correva il quarto centenario, ma non se ne ha mai abbastanza, povero scrittore, morto e sepolto, creatore di un mito che resiste (mi offrono la fotocopia di una poesia che Edoardo Sanguineti ha faxato a uno dei responsabili del convegno, una poesia che parla di Don Quijote, appunto, e che risale al 1949 – “io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra”, la conservo con cura, è davvero bella, un regalo inaspettato durante queste giornate semi-autunnali di grigiore accademico). Risaluto tutti, von Prelzer per primo. Poi alcuni colleghi di Perugia, uno di Catania, l’altro di Torino e accetto l’invito a cena di Jorgen, un mio amico danese, filosofo a tempo pieno e scrittore a tempo perso. Jorgen mi aspetta al centro di Piazza del Popolo, piove, ma la gente, sotto gli ombrelli, passeggia con allegria, incurante del mal tempo, vicino ai marocchini che vendono gli ombrelli (appunto) e ai pachistani che propongono dvd pirata e maglie colorate e foulard in linea con la stagione. Jorgen viene a prendermi con due biciclette. Me ne offre una e ricevo il secondo regalo più bello della settimana, inaspettato e insperato, non ho mai pedalato nel centro di Roma, lo prego di farmi provare l’emozione, Jorgen si toglie il cappellino sportivo e mi fa vedere la testa pelata, perdeva capelli, ha preferito rasarsi, a me sembra ringiovanito, glielo dico, se la ride, e mi dice di sbrigarmi a fare il mio giro in bicicletta, che ha una fame che muore.
Ordiniamo una marinara e una semplice margherita. Io bevo birra, in ricordo dei vecchi tempi; lui coca-cola in lattina. La sera prima si è ubriacato con il gruppo dei danesi dell’Accademia. Jorgen ha vinto una borsa di studio: lo pagano per portare a termine alcune sue ricerche sul concetto di “etica” in Socrate e vive nell’Accademia di Danimarca. Mi vuole presentare i suoi amici. Scrittori, poeti, saggisti, architetti. Dopo un’ora e mezza di ricordi e chiacchiere, mi ritrovo a bere grappa in compagnia di non ricordo più il nome, un tenore, un cantante d’opera. Non capisco la lirica, so chi sono Puccini e Verdi, ma non sono mai stato a un concerto di opera lirica. Il tenore sorride, siamo in un salone enorme, quello in cui si incontrano gli ospiti, in questa stagione dell’anno sono pochi, una struttura enorme, una residenza tranquilla e curata nel bel mezzo di Villa Borghese, sono soltanto in dodici, ma alcuni andranno via prima della fine di Novembre. Jorgen è felice, un evento raro, lui che è generalmente un pessimista cosmico. Accende la tv e mi fa vedere un video con Vattimo e Zabala; il tema è: “fede e nichilismo”. Gli espongo come posso le mie riserve nei confronti del cosiddetto “pensiero debole”. La luce è sempre più soffusa, il tenore non capisce bene le parole del filosofo, anche se parla bene l’italiano. Ci dà la buonanotte e se ne va a dormire. Jorgen è stanco e mi propone di restare da lui, la camera è grande, il divano è anche letto, se voglio restare, posso farlo, senza problemi. I corridoi sono immersi nel buio, ma il mio amico filosofo mi indica la strada della verità, evitando i pericoli di sbattere contro un muro o sbagliare piano, come Platone nei confronti di quelli che vivono nella caverna. Entriamo in stanza che sono le due di notte passate. Sulla scrivania, oltre all’immancabile pc acceso e connesso a internet, campeggiano delle fotocopie. Sono le traduzione di otto delle poesie più pessimiste di Leopardi. Jorgen le ha tradotte per amore. Si è invaghito di Clara, una soprano, forse collega del tenore che mi ha presentato poco fa, non ricordo più bene, mi mostra la foto di Clara sulla copertina di un cd. E’ il terzo cd che ha registrato, mi spiega con orgoglio. Si frequentano da due settimane, lui conosce l’italiano meglio di chiunque altro lì dentro e Clara gli ha chiesto consiglio, lezioni private, il modo corretto di pronunciare le “zeta”. Dorme proprio nella stanza accanto. A volte, mi confessa con certa timidezza, la sente cantare, mentre fa le prove e si schiarisce la voce. Mi chiede se voglio sentire qualcosa. “Questo è Don Chisciotte: io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra. O come qualunque cosa chiusa”. Ripenso ai versi di Sanguineti e accetto. Jorgen mette su il cd, la prima traccia, quella introduttiva. Il volume mi sembra un po’ alto, vista l’ora. Non hai paura che Clara ti senta mentre ascolti la sua musica?, chiedo ingenuamente. E Jorgen: voglio proprio che mi senta, mentre la sento. A volte mi sembra di sentirne perfino il respiro ritmato, quando dorme, quando ha il sonno profondo. Dal balcone si vedono gli alberi (abeti e quercie) di Villa Borghese. Un pezzo di un edificio (mi spiega Jorgen che quella è l’Accademia di Romania); più in là appare uno scorcio della Facoltà di Archiettura, di “Valle Giulia”, e poco oltre c’è il Museo di Arte Contemporanea. La musica esce dal balcone e s’infila nella finestra della stanza accanto. Sono quasi le 2 e mezza, ormai, e non so proprio come farò ad alzarmi presto per tornare a Termini e prendere il treno dell 9,14 per Firenze. Mi chiedo se Clara stia dormendo. Jorgen mi spiega che tra quegli alberi, la mattina, puoi sentire un papagallo che parla latino. Che ti dà il buon giorno in latino. Non ci credo. Ma domani vedrò se è vero. Intanto, la musica scema, la voce di Clara si affievolisce, la luce dei lampioni si frantuma, sotto le goccie grosse della pioggia, che ricomincia senza avvertire. Sembra quasi inverno pieno, a Villa Borghese, dal balcone di una delle molte stanze dell’Accademia danese.

1 comentario:

  1. A quanto pare graviti sempre in circuiti internazionali... bravo!
    La tua affezionata lettrice ;)

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