jueves, marzo 15, 2007

Si può andare avanti a forza di colpi di scena? A un certo punto, pensa il lettore di romanzi d’avventure – anche il meno esigente, anche il più “illuso” – dobbiamo pur arrivarci, a un punto finale (e decisamente conclusivo). Invece no, nella vita reale, quella “vera” (ma esiste davvero la “vita vera”? Non è tutto frutto di un sogno, come disse Shakespeare facendo pronunciare a Macbeth la famosa citazione da Pindaro? O era un altro?) non c’è punto finale risolutore (o meglio: c’è ed è davvero definitivo: la morte, argomento insopportabile per i vivi, quant’altri mai, e perciò la si nasconde, non ci si pensa, la teniamo a distanza e a bada, anche quando muore qualcuno che ci sta affianco o ci è particolarmente caro, andiamo al funerale, mentre siamo lì piangiamo e soffriamo, ma poi allontaniamo il pensiero macabro e oscuro, come fosse una minaccia che, poi, e in fin dei conti, può coglierci tutti, in ogni momento, ogni giorno è quello buono per entrare nel “regno da cui nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno”). La vita vera è costellata (bella questa: "costellata") d’incidenti, che, etimologicamente, vogliono dire proprio questo: accidenti, cose che capitano, che accadono, che ci cadono addosso quando meno ce l’aspettiamo… E così, può anche capitare che uno se ne sta tranquillo, seduto e composto, a leggere in sala di lettura generale un libro di Giuseppe Baretti (irascibile e genialoide viaggiatore, linguista e saggista settecentesco) presso la Biblioteca Nazionale di Firenze che ti arriva una chiamata da una scuola superiore e ti propone (voce rauca, voce di cornacchia) una supplenza di 18 ore per 2 settimane. Liceo Pedagogico, San Miniato Alto. E così, all’improvviso, dopo un viaggetto di una quarantina di minuti, uno si ritrova a fare supplenza di inglese davanti a un’aula popolata di ragazzine scalmanate, che non appena entri in aula, ti chiedono quanti anni hai e se per caso ne hai 33. “Ma nemmeno siamo entrati in confidenza e già mi fate domande così intime?”. E lì, dal fondo, la ribelle del gruppo (ha una mano fasciata): “E’ che abbiamo fatto una scommessa, professore!”. Dico: non è possibile. Poi provo a fare mente locale, faccio l’appello (avere in mano il registro di classe conferisce inevitabilmente una certa aura), mi metto a rispiegare il present perfect, e loro cosa fanno? Ridono, ridacchiano e chiacchierano senza pausa. “Oh, ma facciamo un po’ di silenzio?” (la domanda retorica, ma d'obbligo, di ogni docente che si rispetti); una del gruppo: “E’ che apprezzavamo il suo look”. E un’altra: “Look è inglese, vero?”. Dico sì. Look è inglese. E noi siamo in Italia. Sono le 9,45, ho fatto l’appello con un ritardo di un’ora e passa e a San Miniato è già sbocciata la primavera. Il sole è cocente. Una delle alunne mi chiede se può traslocare nei pressi della cattedra perché fa troppo caldo. Glielo concedo e mi ritrovo con quattro banchi attorno alla cattedra. “Fa proprio caldo, prof!”. Sì, è vero. Si scoppia. E si continua a leggere. Senza fretta. In mezzo alle risatine e agli schiamazzi.

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