jueves, febrero 05, 2009

LA FESTA E’ FINITA, ANDIAMO IN PACE

“Bene, ora mi spieghi la differenza tra parodia e satira”.
La studentessa alza gli occhi al cielo, poi li abbassa verso la sua copia del testo d’esame. Cervantes inizia a rivoltolarsi nella tomba…
“Non mi può parlare del Don Quijote senza dirmi la differenza tra parodia e satira”.
“Mah, ecco… la parodia è…, è, dunque, la satira è cattiva…”
“Sì, e la parodia è buona…”.
“Sì, ehm, ecco… così”.
Affondo maligno:
“Allora mi spieghi cos’è l’ironia. E’ per caso una tecnica? Un genere letterario? O una figura retorica?”.
E mentre la studentessa si arrabatta e le lacrime iniziano a fare capolino mi accorgo all’improvviso del fatto che Cervantes scrisse e pubblicò in un arco di tempo molto ravvicinato ad Ariosto e Shakespeare. Che trio! Ariosto, Cervantes e Shakespeare; potrebbero diventare i protagonisti di una di quelle barzellette tipo, allora c’è un italiano, uno spagnolo e un inglese (o un francese o un tedesco).
Qualcuna si alza e va al bagno (a piangere? Oppure a ripassare?); qualcuna mi viene vicino e mi dice che non è riuscita a fare l’iscrizione online all’esame perché c’è stato brutto tempo e le è saltata la connessione adsl. Non ho voglia di bocciare nessuno oggi. E’ il mio ultimo giorno in questa Università (“de cuyo nombre no quiero acordarme”).
Poi si presenta una signora, dice che è una madre di famiglia e che deve andare all’asilo a riprendersi i due figli, mi chiede se può passare davanti alle altre, e sostenere l’esame prima dell’una, che a quell’ora i bambini escono. Le dico, va bene, passi pure. Apro il libretto e vedo che è cubana, di nazionalità cubana, ma allora caspita, possiamo sostenere l’intero esame in lingua, no?
“No, ecco, vede, professo’, io so sposata a uno di qua, so diecianni che vivo qua con un italiano e ho perso un po’ la lingua”.
Cristo santo, ma come si fa a perdere la lingua madre, dico e domando…
“Sì, ecco, vede, per me sarebbe meglio in italiano”.
E vabbè, cominciamo con i tre romanzi previsti dalla bibliografia primaria.
“No, ecco, vede, professo’, io ne ho letto solo uno, credevo fosse uno a scelta tra i tre”.
“Ma scusi, scusi tanto, ma dove l’ha letto? Dove stava scritto?”.
“Ma no, ecco, vede, io immaginavo, e poi ho avuto dei dubbi, ma non gliel’ho chiesto”.
“Mi poteva anche solo scrivere un’email”.
La signora cubana alza gli occhi al cielo; poi li riabbassa sull’unico romanzo che ha preparato per l’esame (la copertina è consumata; il libro è pieno di postit e di fogli d’appunti che fanno capolino a ogni capitolo; beh, almeno questo è vero, questo qua se l’è studiato a fondo).
“Ecco, vede, io mi vergognavo a chiederglielo”.
Ma Cristo santo, a volte mandate le email più idiote, fate le domande più astruse, e non chiedete se i tre romanzi in programma d’esame vanni letti e studiati tutti e tre?!
La boccio. E’ inevitabile, in casi disperati come questi.
Lei capisce, si alza, mi stringe la mano, mi da l’arrivederci e se ne va (forse si sente un po’ in colpa; forse si vergogna perché realizza che la sua preparazione è insufficiente).
Poi c’è quella che, pur essendo timida, ha studiato e le metto trenta. E c’è quella che, furba, pur non avendo studiato, fa finta di sapere l’argomento, finge di dominarlo, di avere digerito certe letture, e allora scatta la domanda cattiva:
“Mi dice la differenza tra metafora e similitudine? E che s’intende per metonimia?”.
La studentessa resta interdetta. Poi si fa coraggio e reagisce:
“Ma scusi, professore, non c’era la metafora nel corso; non c’era da nessuna parte; e nemmeno la metonimia”. E immagino un dialogo impossibile: tra Cervantes, Shakespeare e Ariosto, che si accapigliano sul concetto di metafora e provano a spiegare cos’è una metonimia (ci avete mai fatto caso? Tutti e tre gli autori parlano, in certo qual modo, del tema della follia: Don Chischiotte è un pazzo che crede che quanto legge nei romanzi di cavalleria sia realtà pura; Amleto è uno che, all’inizio e per smascherare suo zio, si finge pazzo, poi impazzisce veramente – nel mentre, e tanto per gradire, fa impazzire pure l’amata Ofelia; Orlando è pazzo d’amore per quella povera di Angelica la bella; ci avete, dico, mai fatto caso, ripeto?).
E poi gli esami finiscono. E’ da stamane alle 5 che sono in piedi e in viaggio e ho voglia di fumarmi una bella sigaretta. Lo faccio all’ingresso principale. Quella che ha preso 30 mi saluta con un sorriso a 36 denti; l’amica che ha preso 24 mi sorride, ma con un sorriso falso. Possono i voti che dai a un esame orale modificare la purezza, la sincerità, diciamo pure l’ “ampiezza dentale” di un sorriso? Risposta secca: sì, certo che possono. Che mondo!
Fumo e ho la nausea, sempre così, quando fumo a stomaco vuoto. Mi fermo alla macchinetta e prendo un kinder bueno. Un ragazzo di cui non ricordo il volto mi si para davanti e tutto allegro e contento mi fa: “Professore! Ho trovato il titolo del film di cui le parlavo l’altra volta all’esame!”. Non mi ricordavo minimamente del suo esame. Né del film cui si riferisce: “E’ Vero come la finzione, di Marc Forster, con Dustin Hoffman ed Emma Thompson. Lo deve vedere, professo’, è proprio identico a Niebla”. Annuisco. Lo ringrazio molto del consiglio. E me ne torno con i registri e i libri su in ufficio.
Una specie di mini-sgabuzzino ad uso e consumo di noi precari. La campana delle 19 suona puntuale da una chiesa vicina. Accanto alla chiesa c’è una casa di riposo. E qualche metro più in là il cimitero vecchio. Un’allegria da far girare la testa.
Gli ultimi esami. Dopo un anno e mezzo di lavoro e di viaggi e di fatica sia fisica che mentale. Quanti ragazzi avranno seguito le mie lezioni? A quanti saranno piaciuti i miei corsi? Chi si ricorderà di me? E di quale studente mi ricorderò io in futuro?
La festa è finita, andate in pace.
Amen, risponde in corso l’intera classe.
E ho finito pure le sigarette. Cazzo.

05/02/09

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