
martes, junio 29, 2010

domingo, junio 27, 2010

domingo, junio 20, 2010
Elizabeth Costello di J. M. Coetzee: uno sguardo dentro l’abisso (con Lord Chandos sullo sfondo)
Difficile parlare di questo romanzo, anche perché – come spesso succede con il suo autore – sono difficili le tematiche stesse che vengono affrontate sotto forma di conferenza. E questa è già una novità: il libro non si divide in capitoli, bensì in “lezioni”, quelle che da, che scrive, che detta o che legge la Elizabeth Costello del titolo (una scrittrice famosa che vive della rendita che le danno i romanzi giovanili pubblicati nel passato e che trascorre buona parte dell’esistenza che le resta da vivere a parlare in pubblico di letteratura e questioni letterarie – essendo uno dei suoi più famosi successi il romanzo The House on Eccles Street al cui centro sta la mitica Molly Bloom inventata da James Joyce nel suo Ulysses).
La Lezione Uno s’intitola semplicemente “Il realismo”. Che cos’è il realismo? E’ una domanda cui non è facile trovare risposta, anche limitandoci all’ambito letterario. Realismo sono i dettagli insignificanti, quelli che, ad esempio, Daniel Defoe fa notare a Robinson Crusoe nell’omonimo romanzo. Ed è proprio perché si tratta di dettagli banali che il lettore di romanzi li riconosce e inizia ad osservarli (grazie al romanziere) sotto una nuova lente, da un nuovo, straniato, originale punto di vista. Una seconda risposta potrebbe essere questa (ed è la stessa Elizabeth Costello a sviscerarla di fronte al suo pubblico con l’acribia dell’esperta): realismo è “incarnazione delle idee astratte” perché (cito da p. 13 dell’ed. Einaudi del 2005) “il realismo si fonda sull’idea che le idee non godano di vita autonoma, che possano esistere solo nelle cose”. Ma a questo punto è il narratore a guidarci dentro l’esistenza apparentemente grigia e banale della scrittrice e ci mostra (attraverso varie ellissi) i passaggi centrali dell’esistenza del figlio di Elizabeth Costello che, da semplice spettatore della conferenza, si trasforma in attore di primo piano, con le sue riflessioni sulla madre e su una delle spettatrici, una studiosa che ha appena scritto un saggio critico sulla scrittura femminile e – tra le altre – sulla stessa Costello.
La Lezione Due s’intitola “Il romanzo in Africa”. Questa volta a dare la sua conferenza non è Elizabeth, ma un suo collega, uno scrittore africano di successo che tenta di spiegare similarità e differenze tra romanzo europeo-occidentale e romanzo africano. Il perno, però, non riguarda affatto la questione del razzismo (o della colonizzazione o della sopraffazione dell’uomo bianco sull’uomo nero), bensì il problema del tempo (di come anche il romanziere, esattamente come lo storico, cerca di dare un ordine ai fatti accaduti in passato, cerca di dare coerenza logica al passato per poter – nei casi più felici – interpretare correttamente il presente e anticipare profeticamente il futuro). Accanto a questa, il conferenziere sviluppa una seconda idea: quella della prevalenza dell'oralità sulla scrittura nel continente africano (gli africani non sono stati storicamente abiutati all'esercizio solitario della lettura individuale; hanno sempre amato sentirle raccontare oralmente, le storie dei loro padri, dei loro antenati, di quelli che li hanno messi al mondo).
La Lezione Tre è quella che più mi ha colpito e s’intitola “Le discipline umanistiche in Africa”. Elizabeth Costello viene invitata alla celebrazione della laurea honoris causa che viene concessa da un’importante Università africana alla sorella diventata suora (ed esule da ormai diversi anni dalla madre patria, l’Australia). La sorella di Elizabeth spiega da un punto di vista cristiano e religioso cosa ha rappresentato per l’Umanità il sorgere dei cosiddetti studia humanitatis nel corso del Rinascimento e quanta importanza abbiano assunto nell’elaborazione di una vera e propria arte dell’esegesi (applicata, prima che ai classici, alla Bibbia). Ma poi si domanda: hanno ancora senso, oggi, le discipline umanistiche? Ha senso studiare la letteratura all’Università? A detta della suora (id., p. 74) “Gli studia humanitatis hanno impiegato molto tempo a morire, ma oggi, al termine del secondo millennio della nostra era, sono davvero in fin di vita”. Se prima esistevano ancora uomini che leggevano la Bibbia, o Dante, o Shakespeare, o Dostoevskij, per cercare conforto o una qualche possibile verità, oggi ciò è reso impossibile dal fatto stesso che anche questo tipo di studi si è immolato all’altare della Ragione, il mostro dai mille occhi che tutto distrugge (e contro cui non esiste difesa). L’intero capitolo si sviluppa dialetticamente attraverso il contrasto e le divergenze d’opinioni tra Elizabeth Costello e sua sorella, tra colei che non crede in Dio (o non pienamente) e colei che fa del volto di Cristo un motivo per continuare ad aiutare i bambini africani malati di Aids.
La Lezione Quattro s’intitola “Il problema del male”. Coetzee è autore dostoevskijano perché si ferma spesso a riflettere sul male e sul diritto (o meno) che hanno gli scrittori di parlarne nelle loro opere di finzione. Fino a che punto è vera l’affermazione che “leggere” ci rende persone migliori? E’ davvero accettabile leggere anche di cose che sono “oscene” e che, in quanto tali, dovrebbero essere lasciate “fuori dalla scena” pubblica (fuori dalla portata dei nostri occhi)? Chi ci dice che la lettura di un saggio sulle stragi naziste non ci trasmetta, surrettiziamente, il veleno del male che, nella realtà, hanno praticato con tanta perizia i carnefici che operavano al soldo di Hitler (o di Stalin)? Sono domande – anche queste – cui è davvero complicato trovare risposta.
La Lezione Cinque s’intitola “Eros” e tratta il rapporto ancestrale tra “uomini” e “dèi” dalla mitologia classica alle storie moderne. Forse gli dèi tendono a mescolarsi alla vita degli umani perché invidiosi della nostra stessa mortalità (oltre che carnalità). Omero e compagnia raccontano spesso di accoppiamenti non-giudiziosi tra divinità alate e donne umane, troppo umane. Che il sesso non sia l’ultimo ponte che mette in comunicazione con l’al di là? Il desiderio come base che dà luogo a Cassiopea e Alpha Centauri, allo spazio siderale e all’al di là che si trova oltre ogni confine umano… (il capitolo senza dubbio più romantico del libro).
La Lezione Sesta (ed ultima) s’intitola “Davanti alla porta”. Come è facile intuire dal titolo, qui Coetzee riscrive il famoso racconto (o apologo) di Kafka per sprofondare la protagonista (e alter-ego femminile?) in una sorta di incubo senza vie di fuga. Elizabeth Costello deve rispondere a questa semplice domanda: in cosa credi? Il problema è che lei non crede (sempre e univocamente) in Dio o in una certa, stabile versione dei fatti: in quanto scrittrice, è costretta (per mestiere) a scrivere le varie e anche contrastanti verità che gli dettano gli altri e che lei, in quanto “segretaria dell’invisibile”, si preoccupa di mettere per iscritto all’interno delle trame dei suoi romanzi. Nemmeno i suoi libri trasmettono un messaggio o dei messaggi univoci. Non insegnano niente, mostrano solo come vivevano un certo gruppo di persone in un certo luogo e in un certo tempo. E’ come se Kafka venisse trasportato di peso all’interno di un gulag o di un campo di concentramento: è nel centro dell’abisso che Elizabeth Costello (e noi in quanto suoi lettori) è costretta a sviscerare il senso del suo essere scrittrice (e autrice di finzioni).
Il libro, però, non finisce qui. C’è anche un “Poscritto”. Una lettera che Elizabeth Costello - che si firma qui Lady Chandos - scrive a Francis Bacon (l'11 Settembre del 1603) in merito alla follia che sembra aver attanagliato il povero marito, quel Lord Chandos dell’omonima e famosissima “Lettera” che Hofamannsthal scrisse nel 1902 (agli albori del XX secolo).
Con questo libro Coetzee si conferma quel grande scrittore e intellettuale che è; e ci regala momenti di puro piacere e di scoperta (sempre sul limite dell’abisso, e sempre con lo sguardo teso verso lo stesso).
miércoles, junio 16, 2010

martes, junio 15, 2010
lunes, junio 07, 2010

Erano anni che non leggevo un libro così divertente: L’archivio di Dalkey (1964) di Flann O’Brien (tradotto in italiano da Adriana Bottini per Adelphi) è un romanzo ironico (e a volte esplicitamente comico) e lo si capisce fin dal paratesto, con la strana dedica dell’Autore al suo “angelo custode”:
Dedico queste pagine
al mio Angelo custode,
con la precisazione
che sto solo scherzando
e l’avvertimento
che toccherà a lui
far sì che non si creino malintesi
quando tornerò a casa
Il libro ha un tono colloquiale scorrevolissimo, ma anche molto studiato; si prenda l'incipit, in cui facciamo la conoscenza (amabile) della (a volte stressata e a volte involontariamente comica) voce narrante:
"Dalkey è una cittadina a una dozzina di miglia a sud di Dublino, sulla costa. Una citta improbabile, raggomitolata, tranquilla, che fa finta di essere addormentata: strade strette, poco assiomatiche come strade, e con incroci che si direbbero casuali; negozietti che sembrano chiusi e invece sono aperti" (id., p. 11 dell'ed. Adelphi del 1995).
Insomma, Dalkey appare in un modo essendo in un altro; ovvero: a Dalkey niente è come sembra.
Il romanzo è infarcito di discussioni “alcoliche” (nel senso che si svolgono tra personaggi che parlano o chiacchierano davanti a un'immancabile pinta di birra o bicchiere di wiskey) su Dio e la religione cattolica; anzi, in questo libro i preti e quanti ruotano attorno alla Santa Romana Chiesa la fanno da padrona. Si discute di Bibbia, di dogmi, di fede, e dei misteri più noti e inspiegabili (perché Giuda Iscariota deve fare sempre la parte del “cattivo” quando, invece, Dio ha scelto proprio lui per permettere il tradimento che condurrà Gesù Cristo sulla croce, con le conseguenze benefiche che ogni buon cristiano conosce? Che cos'è il fantomatico Spirito Santo, elemento fondante della Santissima Trinità? Siamo sicuri che non si tratti di una cattiva interpretazione della parola ebraica ruach – in greco pneuma, in latino spiritus – ovvero: respiro? E così di seguito...).
A tratti sembra di leggere Cervantes (per l'umorismo e l'ironia e l'auto-ironia della succitata voce narrante – che, a tratti, sembra narrare malgrado tutto e quasi controvoglia, nonostante la realtà “incredibile” dei fatti che vengono presentati al benevolo lettore); altre, di leggere o ri-leggere il Reverendo Laurence Sterne; i dialoghi che Mick intrattiene con James Joyce, poi, sono un vero spasso; intrisi di tutta l'amara ironia, l'ammirazione sperticata e la pietas cristiana che O'Brien professa a uno dei suoi amici e modelli letterari. E' quasi normale, quindi, che a lettura finita si resti un po' rattristati; ci si affeziona subito agli abitanti un po' folli di Dalkey...e si spera sempre in un nuovo, imprevedibile incontro con qualche altro maestro del passato...
In due parole: postmodernismo puro, e pieno d'ironia, quando ancora il postermodernismo non esisteva e la parola “postmoderno” era ancora lungi dal divenire una “categoria” del filosofare contemporaneo. Si capisce che il libro è stato scritto nei favolosi anni 60: sprigiona un'energia e una carica che certi romanzieri di oggi se le sognanano (di notte).
David Lynch: non lo "lyncheremo" più Ieri sera, verso le 20:00 (l'ora di cena per me, all'italiana), mia cugina mi manda ...

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Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...