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Erano anni che non leggevo un libro così divertente: L’archivio di Dalkey (1964) di Flann O’Brien (tradotto in italiano da Adriana Bottini per Adelphi) è un romanzo ironico (e a volte esplicitamente comico) e lo si capisce fin dal paratesto, con la strana dedica dell’Autore al suo “angelo custode”:
Dedico queste pagine
al mio Angelo custode,
con la precisazione
che sto solo scherzando
e l’avvertimento
che toccherà a lui
far sì che non si creino malintesi
quando tornerò a casa
Il libro ha un tono colloquiale scorrevolissimo, ma anche molto studiato; si prenda l'incipit, in cui facciamo la conoscenza (amabile) della (a volte stressata e a volte involontariamente comica) voce narrante:
"Dalkey è una cittadina a una dozzina di miglia a sud di Dublino, sulla costa. Una citta improbabile, raggomitolata, tranquilla, che fa finta di essere addormentata: strade strette, poco assiomatiche come strade, e con incroci che si direbbero casuali; negozietti che sembrano chiusi e invece sono aperti" (id., p. 11 dell'ed. Adelphi del 1995).
Insomma, Dalkey appare in un modo essendo in un altro; ovvero: a Dalkey niente è come sembra.
Il romanzo è infarcito di discussioni “alcoliche” (nel senso che si svolgono tra personaggi che parlano o chiacchierano davanti a un'immancabile pinta di birra o bicchiere di wiskey) su Dio e la religione cattolica; anzi, in questo libro i preti e quanti ruotano attorno alla Santa Romana Chiesa la fanno da padrona. Si discute di Bibbia, di dogmi, di fede, e dei misteri più noti e inspiegabili (perché Giuda Iscariota deve fare sempre la parte del “cattivo” quando, invece, Dio ha scelto proprio lui per permettere il tradimento che condurrà Gesù Cristo sulla croce, con le conseguenze benefiche che ogni buon cristiano conosce? Che cos'è il fantomatico Spirito Santo, elemento fondante della Santissima Trinità? Siamo sicuri che non si tratti di una cattiva interpretazione della parola ebraica ruach – in greco pneuma, in latino spiritus – ovvero: respiro? E così di seguito...).
A tratti sembra di leggere Cervantes (per l'umorismo e l'ironia e l'auto-ironia della succitata voce narrante – che, a tratti, sembra narrare malgrado tutto e quasi controvoglia, nonostante la realtà “incredibile” dei fatti che vengono presentati al benevolo lettore); altre, di leggere o ri-leggere il Reverendo Laurence Sterne; i dialoghi che Mick intrattiene con James Joyce, poi, sono un vero spasso; intrisi di tutta l'amara ironia, l'ammirazione sperticata e la pietas cristiana che O'Brien professa a uno dei suoi amici e modelli letterari. E' quasi normale, quindi, che a lettura finita si resti un po' rattristati; ci si affeziona subito agli abitanti un po' folli di Dalkey...e si spera sempre in un nuovo, imprevedibile incontro con qualche altro maestro del passato...
In due parole: postmodernismo puro, e pieno d'ironia, quando ancora il postermodernismo non esisteva e la parola “postmoderno” era ancora lungi dal divenire una “categoria” del filosofare contemporaneo. Si capisce che il libro è stato scritto nei favolosi anni 60: sprigiona un'energia e una carica che certi romanzieri di oggi se le sognanano (di notte).
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