sábado, octubre 30, 2010

Spazi e tempi diversi
(ovvero: tentativo di fenomenologia del vivere all'estero)



Sto leggendo un romanzo di Antonio Muñoz Molina (La noche de los tiempos) che ancora non so se mi sta piacendo e rifletto su una riflessione che fa il Narratore Esterno parlando di “persone che viaggiano in un altro paese e parlano un'altra lingua”... In effetti, è vero, è così, non possiamo non dargli retta: chi è stato all'estero non solo per turismo, ma per viverci, chiunque abbia trascorso mesi interi all'estero e praticato una lingua diversa dalla sua, si sarà accorto che arriva un momento in cui ci si sente “altri”; l' “io” abitudinario che ci sembra di conoscere da una vita diventa un “altro da me” che, a volte, non sospettavamo nemmeno di poter contenere dentro lo stesso corpo.

Uno va a Madrid (o a Londra o a Parigi o a Berlino) e ci resta per interi mesi e inizia a pensare in spagnolo (o in inglese o in francese o in tedesco) come se quella fosse la sua lingua di tutti i giorni (quando sappiamo benissimo che non è così). Eppure... ci può capitare perfino di sognare in un'altra lingua; di pensare (a bassa voce o in silenzio) nella lingua adottata per quell'arco temporale in cui il nostro corpo vive, respira e abita in un altro paese diverso dalla nostra madre patria...

E ci si sente in effetti diversi. Innanzittutto, viviamo ogni momento come fosse l'ultimo; si acuisce in modo esponenziale la nostra attenzione verso il presente; verso le persone e gli oggetti che, ogni giorno, possiamo vedere o incontrare e conoscere in metro, in una piazza dove non siamo mai stati prima, in casa di amici di amici che abbiamo appena conosciuto e non siamo neppure tanto sicuri che ci saranno davvero così amici in futuro.

Uno cammina per strada (in centro a Madrid, o a Parigi, o a Berlino, o a Londra) e appena sente la lingua parlata dai suoi connazionali si emoziona, la riconosce, per un momento sente quasi l'impulso di avvicinarsi per sentire meglio cosa si dicono questi connazionali che non sanno che noi parliamo la stessa lingua; si sperimenta con certo piacere morboso la possibilità di capire i dialoghi, carpire le parole degli altri, senza che gli altri si accorgano che noi capiamo (che non siamo spagnoli, o inglesi, o francesi, o tedeschi, come la stragrande maggioranza delle persone che hanno attorno)... E ci si risente quasi subito a casa, anche se poi tendiamo ad allontanarci dai connazionali quando siamo all'estero proprio perché non abbiamo voglia di tornare a sentire sempre gli stessi discorsi... meglio la novità costante che può regalarci il paese straniero che, temporaneamente, ci ospita.

E dunque, dicevo, all'estero uno diventa un altro; l' “io” è “altro da me”, o un “io diverso”, più propenso ad uscire, a perlustrare le strade che non conosce, a visitare i musei in cui non ha mai messo piede, a conoscere gente nuova, a scoprire parole nuove della lingua che mastica perché si trova all'estero...

E certe volte può capitare di sentirsi leggeri: quando sei all'estero nessuno ti conosce e, quindi, non hai radici; non c'è nessun testimone che possa attestare la tua appartenenza a un credo politico, a una certa razza, a una certa cerchia di amici e familiari, a una stirpe... Si ridiventa bambini, quando si vive fuori di casa... E allora diventa bello e interessante re-inventarsi: uno può dire ciò che vuole, quando fa la conoscenza di uno straniero; o quando un amico straniero lo presenta alla sua cerchia (di amici, familiari, etc).

Maggiore attenzione al presente (alla vita di tutti i giorni – vissuti tutti intensamente perché “percepiti” come fossero gli ultimi a disposizione) e possibilità di re-inventarsi un passato o di cancellare quello che ci siamo lasciati alle spalle (a casa nostra).

Ed è forse anche per questo che, quando vivi all'estero, ti senti quasi impune, non sottoposto al rigore delle leggi del posto: uno può bestemmiare nella propria lingua senza che gli altri se ne rendano conto; uno può innamorarsi o corteggiare un'altra persona in un paese straniero e sentirsi più bello o intraprendente e affascinante; si può entrare in un sexy-shop senza provare vergogna perché là, tanto, nessuno ci conosce.

C'è un libro in cui lo scrittore spagnolo Javier Marías cita dei versi di un dramma di Christopher Marlowe; si tratta di uno scambio di battute tra due personaggi:

"Thou has committed...”

Fornication....But that was in another country

and besides, the wench is dead".

Versi misteriosi (come molti di quelli che fecero il successo del teatro elisabettiano), che possiamo tradurre così: “Hai commesso...” “Fornicazione... Ma fu in un altro paese e, inoltre, la ragazza è morta”. Versi che calzano a pennello per il discorso che vado facendo: come se all'estero l' “io” non solo si sentisse più impune e più leggero, ma anche più propenso a fare delle cose che, a casa nostra, nella vita quotidiana che facciamo nella nostra patria, non faremmo mai...
Come se le azioni che compio in un posto diverso da casa mia fossero meno gravi o avessero meno peso di quelle che compio (o potrei compiere) in un paese straniero (senza, per questo, e per forza di cose, arrivare a commettere reati o azioni riprovevoli dal punto di vista morale).

All'estero ci si sente un po' attori: quando si parla un'altra lingua, si può facilmente notare come anche il tono della nostra stessa voce cambi e diventi quello di un altro... Un attore (o una maschera) che non sospettavamo neppure di avere dentro di noi (dentro lo stesso corpo e la stessa faccia).


Certe volte penso che sia un bene andarsene e viaggiare e stare a contatto con gli altri e con quell' “altro da me” che mi porto dentro anche quando sono a casa e vivo la mia vita di tutti i giorni; certe volte credo proprio che sia necessario staccarsi dalle abitudini e dal proprio “io” quotidiano per vedere la realtà con gli occhi di quell'altro (che sa stare a Madrid e ama vivere a Parigi e non vede l'ora di tornare a Londra o a Berlino)...

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