L'incantatore:
le magie dello stile nabokoviano
L'incantatore
(Milano, Adelphi, 2011), così s'intitola (nella traduzione
italiana del figlio Dmitri) il racconto che anticipa Lolita,
il capolavoro di Vladimir Nabokov. Scritto nel 1939, a Parigi, mentre
l'autore è costretto a letto per un “violento attacco di nevralgia
intercostale” (dalla 'Prima nota dell'autore'), L'incantatore
è un racconto lungo che ipnotizza il lettore sin da subito, sin
dall'incipit, in cui si parla di lascivia, depressione, lussuria,
stupro, depravazione, desiderio smanioso. Ma sarebbe un racconto
morboso solo se ci fermassino a leggerlo in superficie; come sempre
quando si tratta di Nabokov, lo stile conta molto di più del
contenuto; il “come” molto di più del “cosa” si racconta.
Prima
domanda: chi narra cosa? Un narratore esterno in terza persona,
sarebbe la risposta più facile e banale.
Eppure...
ci sono piccoli squarci, all'interno della trama, in cui possiamo
scoprire una indiscutibile vicinanza tra questo narratore-testimone
esterno e il fantasma dell'autore in carne ed ossa; quando il
quarantenne innamorato delle dodicenni entra in casa della donna che
gli permetterà di stare a più stretto contatto con la sua
“ninfetta”, ecco che la voce del testimone oculare si incrina e
subentra quella di un altro (chi? Nabokov? L'innominato protagonista
pedofilo? Chi parla, in questo caso?):
“[...]
uno di quei visi che vengono descritti senza che si possa dir nulla
delle labbra e degli occhi perché il solo fatto di menzionarli –
anche ora, qui – sarebbe un'involontaria contraddizione della loro
totale insignificanza” (p. 35 dell'ed. succitata).
E'
nell'inciso che si crea lo squarcio (o si apre un varco): il
narratore sta dicendo che la donna è priva di vero fascino; che non
andrebbero descritti neppure i suoi occhi né le labbra, tanto sono
insignificanti: nemmero ora, né qui, sarebbe necessario descriverli.
E lecitamente il lettore si potrebbe domandare: perché? E
soprattutto: quando? Dove? A quale “ora” si riferisce quell'
“ora” e a quale “qui”? Chi narra cosa e quando e dove?
L'incantatore
è la storia di una passione estrema (anche disturbante, a
tratti; impossibile restare indifferenti davanti alle elucubrazioni
di un individuo così freddo, nella sua voglia di conquistare
l'innocenza della dodicenne che diventa “oscuro oggetto del
desiderio”) e, al contempo, quella di un tentativo: decifrare
correttamente la realtà, non farsi ingannare dai sensi o dagli
altri, superare gli scherzi del destino. E allora ecco che il
racconto viene intervallato da diverse metafore libraie o libresche,
oltre che geometrico-matematiche: il mondo come libro che va
interpretato; la realtà come manoscritto di difficile decifrazione o
come insieme di formule che vanno calcolate con esattezza e
precisione infinitesimali.
Alcuni
esempi:
[di
fronte alla “matrigna” della sua Lolita – una donna matura
preda di una malattia incurabile e che – egli spera – prossima a
morire] “e ascoltava l'epopea della sua malattia, collazionando
varianti e interpretando con grande acume le più recenti corruzioni
del testo” (p. 38)... come se si potessero davvero collazionare
varianti davanti al racconto (nostalgicamente triste) di una malata
terminale...
[pensando
ai futuri piaceri da consumare con la bambina] “Adesso intanto,
oggi, un refuso del desiderio distorceva il senso dell'amore”...
come se quel suo desiderio ossessivo fosse un qualcosa di lecito e
non un obbrobrio; come se il desiderio creasse refusi – e chi
potrebbe mai correggerli, i refusi del desiderio?
[Tornando
a casa, di notte, con la speranza di non ritrovarsi tra i piedi la
donna malata – esca fondamentale per arrivare alla preda] “Quando
tornò a casa l'appartamento era buio – gli balenò la speranza che
lei stesse già dormendo ma, ahimè, la porta della sua camera era
sottolineata, con la precisione di un regolo, da una sottile lama di
luce”(p. 54)... e qui è davvero inutile parafrasare o commentare
l'immagine quasi “proustiana”: quella lama ci trafigge, come fa
con il protagonista (la sinestesia è figura retorica preferita di
Nabokov: con una sola frase, lo scrittore ci immerge in una atmosfera
di cui sentiamo quasi l'odore, oltre che l'aspetto visivo, tattile e
sonoro)
[mentre
la ninfa si trova in uno stato di dormiveglia] “Allora, dando
inizio a poco a poco all'incantesimo, cominciò a passare la sua
bacchetta magica sopra quel corpo, quasi sfiorando la pelle,
torturandosi con l'attrazione che ispirava, con la sua tangibile
vicinanza, con le fantastiche comparazioni consentite dal sonno di
quella ragazzina nuda che egli misurava, per così dire, con un
regolo incantato […]” (pp. 83-84)... e qui è davvero inutile
spiegare a cosa alluda questa volta il regolo, strumento di
precisione, di calcolo, elemento visivo che permette all'autore di
giocare con l'ennesima metafora geometrica (matematica?) e con il
sesso (o il desiderio sessuale).
La
realtà è un gioco di specchi in cui l'incantatore prova a trovare
la strada d'uscita (alle sue pulsioni più animalesche) e in cui la
bambina è la vittima innocente che ignora il pericolo che sta
correndo in compagnia di questo strano individuo.
La
realtà si sdoppia, anche numericamente: a p. 47 l'uomo entra in casa
e vede la “moglie” intenta a chiacchierare con una vicina di
casa. Annoiato, l'uomo prende un giornale, anche se è incapace di
leggere o decifrarne le righe. “Prese un giornale (del 32 del
mese)”, dice il narratore esterno. E il lettore si domanda se abbia
letto bene, dubitando si tratti di un refuso (quale mese ha 32
giorni?). E in questa nebbia vaghiamo insieme al protagonista, fino
alla scena catartica della stanza d'albergo, quando tutto precipita:
parole, sensazioni, pulsioni, obiettivi, macchinazioni, metafore,
godimenti presunti e reali, sogni ad occhi aperti e incubi
incessanti...
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