miércoles, marzo 21, 2012



L'incantatore: le magie dello stile nabokoviano





L'incantatore (Milano, Adelphi, 2011), così s'intitola (nella traduzione italiana del figlio Dmitri) il racconto che anticipa Lolita, il capolavoro di Vladimir Nabokov. Scritto nel 1939, a Parigi, mentre l'autore è costretto a letto per un “violento attacco di nevralgia intercostale” (dalla 'Prima nota dell'autore'), L'incantatore è un racconto lungo che ipnotizza il lettore sin da subito, sin dall'incipit, in cui si parla di lascivia, depressione, lussuria, stupro, depravazione, desiderio smanioso. Ma sarebbe un racconto morboso solo se ci fermassino a leggerlo in superficie; come sempre quando si tratta di Nabokov, lo stile conta molto di più del contenuto; il “come” molto di più del “cosa” si racconta.

Prima domanda: chi narra cosa? Un narratore esterno in terza persona, sarebbe la risposta più facile e banale.

Eppure... ci sono piccoli squarci, all'interno della trama, in cui possiamo scoprire una indiscutibile vicinanza tra questo narratore-testimone esterno e il fantasma dell'autore in carne ed ossa; quando il quarantenne innamorato delle dodicenni entra in casa della donna che gli permetterà di stare a più stretto contatto con la sua “ninfetta”, ecco che la voce del testimone oculare si incrina e subentra quella di un altro (chi? Nabokov? L'innominato protagonista pedofilo? Chi parla, in questo caso?):

“[...] uno di quei visi che vengono descritti senza che si possa dir nulla delle labbra e degli occhi perché il solo fatto di menzionarli – anche ora, qui – sarebbe un'involontaria contraddizione della loro totale insignificanza” (p. 35 dell'ed. succitata).

E' nell'inciso che si crea lo squarcio (o si apre un varco): il narratore sta dicendo che la donna è priva di vero fascino; che non andrebbero descritti neppure i suoi occhi né le labbra, tanto sono insignificanti: nemmero ora, né qui, sarebbe necessario descriverli. E lecitamente il lettore si potrebbe domandare: perché? E soprattutto: quando? Dove? A quale “ora” si riferisce quell' “ora” e a quale “qui”? Chi narra cosa e quando e dove?

L'incantatore è la storia di una passione estrema (anche disturbante, a tratti; impossibile restare indifferenti davanti alle elucubrazioni di un individuo così freddo, nella sua voglia di conquistare l'innocenza della dodicenne che diventa “oscuro oggetto del desiderio”) e, al contempo, quella di un tentativo: decifrare correttamente la realtà, non farsi ingannare dai sensi o dagli altri, superare gli scherzi del destino. E allora ecco che il racconto viene intervallato da diverse metafore libraie o libresche, oltre che geometrico-matematiche: il mondo come libro che va interpretato; la realtà come manoscritto di difficile decifrazione o come insieme di formule che vanno calcolate con esattezza e precisione infinitesimali.

Alcuni esempi:

[di fronte alla “matrigna” della sua Lolita – una donna matura preda di una malattia incurabile e che – egli spera – prossima a morire] “e ascoltava l'epopea della sua malattia, collazionando varianti e interpretando con grande acume le più recenti corruzioni del testo” (p. 38)... come se si potessero davvero collazionare varianti davanti al racconto (nostalgicamente triste) di una malata terminale...

[pensando ai futuri piaceri da consumare con la bambina] “Adesso intanto, oggi, un refuso del desiderio distorceva il senso dell'amore”... come se quel suo desiderio ossessivo fosse un qualcosa di lecito e non un obbrobrio; come se il desiderio creasse refusi – e chi potrebbe mai correggerli, i refusi del desiderio?

[Tornando a casa, di notte, con la speranza di non ritrovarsi tra i piedi la donna malata – esca fondamentale per arrivare alla preda] “Quando tornò a casa l'appartamento era buio – gli balenò la speranza che lei stesse già dormendo ma, ahimè, la porta della sua camera era sottolineata, con la precisione di un regolo, da una sottile lama di luce”(p. 54)... e qui è davvero inutile parafrasare o commentare l'immagine quasi “proustiana”: quella lama ci trafigge, come fa con il protagonista (la sinestesia è figura retorica preferita di Nabokov: con una sola frase, lo scrittore ci immerge in una atmosfera di cui sentiamo quasi l'odore, oltre che l'aspetto visivo, tattile e sonoro)


[mentre la ninfa si trova in uno stato di dormiveglia] “Allora, dando inizio a poco a poco all'incantesimo, cominciò a passare la sua bacchetta magica sopra quel corpo, quasi sfiorando la pelle, torturandosi con l'attrazione che ispirava, con la sua tangibile vicinanza, con le fantastiche comparazioni consentite dal sonno di quella ragazzina nuda che egli misurava, per così dire, con un regolo incantato […]” (pp. 83-84)... e qui è davvero inutile spiegare a cosa alluda questa volta il regolo, strumento di precisione, di calcolo, elemento visivo che permette all'autore di giocare con l'ennesima metafora geometrica (matematica?) e con il sesso (o il desiderio sessuale).

La realtà è un gioco di specchi in cui l'incantatore prova a trovare la strada d'uscita (alle sue pulsioni più animalesche) e in cui la bambina è la vittima innocente che ignora il pericolo che sta correndo in compagnia di questo strano individuo.

La realtà si sdoppia, anche numericamente: a p. 47 l'uomo entra in casa e vede la “moglie” intenta a chiacchierare con una vicina di casa. Annoiato, l'uomo prende un giornale, anche se è incapace di leggere o decifrarne le righe. “Prese un giornale (del 32 del mese)”, dice il narratore esterno. E il lettore si domanda se abbia letto bene, dubitando si tratti di un refuso (quale mese ha 32 giorni?). E in questa nebbia vaghiamo insieme al protagonista, fino alla scena catartica della stanza d'albergo, quando tutto precipita: parole, sensazioni, pulsioni, obiettivi, macchinazioni, metafore, godimenti presunti e reali, sogni ad occhi aperti e incubi incessanti...

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