Diaz, di Daniele Vicari: un film
duro, che ci ricorda cos’è (diventata) l’Italia oggi
Tempo fa, e su queste “pagine virtuali”, elogiavo
uno dei film più intensi (e meno noti) di Daniele Vicari, Il mio paese, un documentario – uscito nel 2006 – su cos’è l’Italia
oggi e su cos’era in passato. Memore della lezione di alcuni maestri del cinema
documentaristico (come Joris Ivens) e di alcuni “mostri sacri” del cinema
nostrano cosiddetto “civile” (penso a Francesco Rosi e a Citto Maselli),
Daniele (mi viene spontaneo chiamarlo così, anche perché quando lo conobbi la
prima volta ero ancora un giovincello e, all’epoca, non sapevo ancora cosa
fosse il linguaggio cinematografico) intraprendeva un viaggio da Sud a Nord per
tentare di mostrare l’altra faccia dell’Italia, quella che gli slogan
berlusconiani e le tv di Stato tentavano costantemente di nasconderci. E
riusciva nell’intento: nel senso che Il
mio paese metteva sotto gli occhi dello spettatore quei luoghi, volti,
eventi da cui, in genere, le telecamere dei cronisti si tengono a debita
distanza (la stessa “giusta distanza”, oserei dire, che Daniele mostra verso il
finale del film, quando inquadra da lontano suo padre, intento ai lavori umili
del contadino e dell’allevatore, sotto una coltre di neve impressionante, e
riflette con voce in off su cosa sia
diventata l’Italia – da mondo contadino a mondo industrializzato a “piccolo
mondo globalizzato” che non sa (più) che pesci pigliare).
Con Diaz
Daniele torna a occuparsi dell’Italia, ma fissando lo sguardo (suo e della sua
macchina da presa) su un solo, singolo e ben delimitato spazio, quella
tristemente nota “scuola Diaz” che divenne centro di scontri disumani tra
manifestanti no-global e polizia di Stato durante le tragiche giornate del G8
di Genova.
Il regista è abilissimo a mescolare le immagini di
repertorio (quelle amatoriali finite poi su internet e quelle trasmesse dai
vari telegiornali) con le immagini che “re-inventa” a partire dalle carte dei
processi che hanno visto indagati gli uomini delle forze dell’ordine resisi protagonisti
del pestaggio ai danni dei manifestanti presunti violenti e/o affiliati ai
famigerati “black block”.
Per re-inventare, Daniele ci racconta la storia di
quella giornata riprendendola da diversi punti di vista: quello del giovane del
Global Forum che non sospetta nulla e che non vede l’ora di fare l’amore con la
fidanzata; del giornalista francese che non vede l’ora di tornare a casa con
l’aereo; del poliziotto che guiderà l’irruzione nella scuola, dopo la schifosa
cena servita a mensa; del vecchio sindacalista che, in mancanza d’alloggio,
decide di dormire per una notte dentro la palestra della scuola, ecc.
E’ come se, da spettatori, diventassimo via via
quei personaggi, come se, ogni volta, sposassimo il loro personale e soggettivo
punto di vista. Ed è qui che il film ottiene il suo scopo: renderci partecipi
dell’orrore, sia da vittime che da carnefici (non mi dilungo sulla fotografia –
davvero bella e iperrealistica – né sulla prova degli attori né sulla colonna
sonora).
Confesso di aver avuto paura e di aver sofferto,
di essere stato fisicamente male, mentre guardavo le scene più violente e
sanguinolente (o quella della tortura ai danni della giovane tedesca, davvero
difficile da sostenere fino in fondo). E confesso pure di avere provato una
rabbia cieca, non solo e non tanto contro gli “sbirri”, ma contro tutto
quell’insieme di concause che hanno portato a quegli effetti devastanti (per
tanti giovani venuti da Francia, Spagna, Grecia, ecc.). Confesso anche che il
film mi ha fatto vergognare di essere italiano e che, mentre lo guardavo con
occhi lucidi, mi venivano in mente sia Il
divo (di Paolo Sorrentino) sia Gomorra (di Matteo Garrone).
E poi ho pensato ad una delle ultime frasi che
appaiono prima dei titoli di coda: in Italia non esiste il reato di “tortura”.
Se torturo qualcuno, in Italia, nessuno può condannarmi, perché, semplicemente,
la legge non contempla quel reato. E infine, chiacchierando con l’amica giornalista
che mi ha accompagato a vedere il film, mi sono ricordato di un articolo di
Adriano Sofri, uno dei pochi articoli che, recentemente, avevo ritagliato da La Repubblica: quello che s’intitola
“L’uso della tortura negli anni di piombo” (del 16/2/2012); non sono sempre
d’accordo con le cose che scrive Sofri, però ricordo che quell’articolo mi
colpì così tanto che fui spinto a ritagliarlo e a conservarlo come qualcosa di
prezioso perché lì, con pacatezza e dovizia di particolari, l’autore mi
spiegava che anche uno Stato democratico come l’Italia consentiva (e non
ignorava affatto) l’uso della tortura come strumento per punire o estorcere
informazioni al “nemico”.
Concludendo: Diaz
è uno di quei film che, insieme ai succitati Il divo e Gomorra, farei vedere
a tutti gli studenti delle scuole superiori, dopo attenta e corretta disanima
dei fatti di cronaca, politici e storici cui questi film si riferiscono. Diaz è un film duro, a volte anche
troppo duro, ma va visto perché serve a ricordarci che cos’è (diventata)
l’Italia oggi; che cosa non deve diventare domani.
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