lunes, mayo 07, 2012


Aire de Dylan, di Enrique Vila-Matas: Amleto ci salverà (o dei fantasmi che ritornano dal passato e ci parlano del presente)



Enrique Vila-Matas è stato spesso considerato uno “scrittore per scrittori” per le innumerevoli citazioni dalla letteratura universale che tempestano le trame dei suoi libri; autore “borgesiano” come pochi altri, in Spagna, attualmente, Vila-Matas ha fatto dell’intertestualità non solo (e non tanto) una tecnica letteraria, quanto uno strumento fondamentale per perlustrare sia la letteratura sia la realtà che ci circonda. Lo si può comprendere facilmente leggendo opere come Historia abreviada de la literatura portátil o il trittico metaletterario composto da Bartleby y compañía, El mal de Montano e Doctor Pasavento (tutti editi, in Italia, da Feltrinelli – tranne il primo, uscito nel da Sellerio).
L’ultimo romanzo, Aire de Dylan (Barcelona, Seix Barral, 2012) non fa eccezione alla regola: il contrasto tra un padre (scrittore) e un figlio (che, come lo “scrivano” di Melville “preferirebbe di no” – ma qui, il modello per eccellenza dell’ “uomo senza qualità” è il più volte citato Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo di Goncharov) è lo spunto da cui parte Vila-Matas per ordire una trama che si struttura evidentemente sulla prima scena dell’Hamlet: Vilnius (questo il nome del ragazzo, che per la straordinaria somiglianza con Bob Dylan è chiamato da tutti anche Little Dylan) riceve letteralmente le visite del padre defunto, Lancastre (nemmeno questo nome è casuale e ha un’origine chiaramente shakespeariana), che tenta di “penetrare” nella mente del figlio per spiarne le mosse, spingerlo a vendicare la propria morte (a quanto pare, causata dall’odio della moglie, Laura Verás – altro “nombre hablante”) e controllarne l’atteggiamento nei confronti di Débora (sua giovane amante ed erede letteraria).
Ecco, è da questa famosa scena dell’Amleto che nasce Aire de Dylan: Amleto senior torna da quella “oscura regione da cui mai nessuno è tornato” (affascinante contraddizione interna del plot – se mai nessuno è tornato perché lui sì?) per spingere Amelto junior ad aprire gli occhi sull’atteggiamento di sua madre e sulle colpe (inequivocabili) dello zio Claudio (colpevole di averlo avvelenato con del veleno versato nell’orecchio).
Lancastre farà lo stesso: solo che in questo caso, più che “apparire” al figlio Vilnius, “entra” all’interno del suo cervello, trasmettendogli anche i ricordi personali di un passato che, anagraficamente, non potrebbe mai riguardare il giovane sosia del cantante americano.
Ma cosa fa nella vita Vilnius? All’inizio ci viene spiegato che è un regista cinematografico: piccolo neo, non ha mai girato un film, solo un cortometraggio, con scarso successo, tra l’altro. Niente di strano, allora, che Vilnius voglia tornare dietro la macchina da presa per girare un grandioso e megalomane film sul “fracaso”, ovvero, sul fallimento, su tutti coloro che, in questa vita, hanno perso la loro battaglia personale. E non è strano nemmeno, allora, che Vilnius partecipi a un convegno con un intervento che s’intitola “Teatro de realidad”, in realtà, un esperimento che tenta di portare a termine nel bel mezzo di una sala piena di spettatori: l’esperimento riuscirà se Vilnius farà letteralmente scappare dalla sala i vari partecipanti. E invece? Fallisce, anche questa volta. Tra il pubblico, c’è il narratore in prima persona che, in modo graduale, inizia ad interessarsi alle vicende di Vilnius, della fidanzata Débora, delle strani voci che Vilnius sente nella mente ed attribuisce al padre Lancastre.
Che fine fa il principio di verosimiglianza in un contesto simile, all’interno di una trama imbastita per disorientare? Verso la conclusione del romanzo, il narratore che fa da testimone oculare e segue gli spostamenti e i dialoghi della giovane coppia sembra accettare le teorie dei “falibilistas”: non ci sono certezze, la vita umana è regolata dal caso, nessuno di noi potrà mai aspirare alla verità. Ma è anche Lancastre a sostenere, all’inizio della vicenda, che “Si Dios no tiene unidad, cómo voy a tenerla yo” (“Se Dio non ha unità, come potrò mai averla io”). Insomma, e modificando la domanda iniziale: come seguire le disavventure di Vilnius, Débora, Lancastre e dello stesso narratore-testimone oculare in un contesto siffatto?
Potremmo rispondere affermando che, in Aire de Dylan, ancor più che negli altri suoi romanzi, a Vila-Matas il principio di verosimiglianza non interessa più. E potremmo apportare prove, spiegando che, in realtà, nello scontro costante tra Vilnius e Lancastre si ripete lo scontro (tutto contemporaneo e assolutamente attuale) tra l’istanza di coloro che puntano tutto sulla “autenticità” (termine molto heideggeriano, sia detto per inciso) e coloro che, invece, credono nella “postmodernità”; tra chi, come il giovane sosia di Bob Dylan, pensa che, contro la crisi, non ci sia altra soluzione che “percorrere la strada dell’insuccesso”, smettere d’agire, di cercare lavoro, di fare soldi, di scendere a patti con la società che ci influenza – società a sua volta pesantemente manipolata da certa politica e da certo modo d’intendere l’economia – e chi, come il vecchio e ormai morto (e ancora per poco fantasma) Lancastre, pensa che “postmoderno” non sia un aggettivo vuoto o svuotato di senso, ma la quintessenza dell’arte contemporanea, l’unico humus che può rendere fertile la letteratura (impossibile, per il lettore che segue Vila-Matas da anni, non intravedere in questa critica al “postmodernismo” anche una sottile forma di auto-critica).
Insomma, Aire de Dylan mette in scena (anche teatralmente) la lotta tra due contrastanti punti di vista: tra chi intende l’arte come “finzione” (e sarà lo stesso narratore anonimo a sostenere che “siempre se han contado historia y siempre se contarán”) e come ri-scrittura e ri-elaborazione di opere di autori appartenenti al passato e alla tradizione letteraria passata e chi, invece, intende l’arte come “espressione dell’io”, scavo verso l’autenticità e la verità ultima.
Chi ha ragione? Se seguiamo attentamente le parole del narratore anonimo ci renderemmo conto subito che, in realtà, nessuna delle due istanze sembra soddisfare a pieno i nostri bisogni e le nostre esigenze (di “esseri umani”, oltre che di “lettori” o “spettatori” – il cinema e i riferimenti ad alcuni film della storia del cinema occupano uno spazio considerevole, all’interno di questo romanzo, più che in qualsiasi altra opera di Vila-Matas). E allora il lettore smaliziato può anche ipotizzare che il narratore esista, oltre che per raccontarci le vicende assurde, surreali o tragicomiche dei due personaggi, anche per creare una sorta di “ponte” metaforico tra due spazi che sembrano non comunicare tra di loro, tra due “luoghi” (culturali e artistici) distanti anni luce l’uno dall’altro. Forse l’arte (e la letteratura) sono gli unici strumenti che abbiamo per arrivare all’ “autenticità”; forse possiamo coglierla proprio grazie alle “finzioni” (a volte, finzioni al quadrato, come sono quelle che crea anche Vila-Matas) che l’arte e la letteratura inventano dai tempi di Omero (sono molti anche i riferimenti alla mitologia classica – da Ulisse a Ermete, fino ad Arianna). Forse, anche quella frase misteriosa che ossessiona tanto Vilnius e che lo spinge all’azione (lui che è l’incarnazione della passività e dell’oblomovismo), quella frase che appare nel film Tres camaradas di Frank Borage, quella frase che sembra sia stata scritta da uno degli sceneggiatori d’eccezione che partecipò a quel film ormai dimenticato da tutti (Francis Scott Fitzgerald, a quanto pare), forse quella frase, dicevo, e che recita: “Cuando oscurece, siempre necesitamos a alguien” (“Quando cala la notte, si ha sempre bisogno di qualcuno”), ecco, forse questa frase, che sembra così sdolcinata e banale, è anch’essa espressione di quell’ “autenticità” che, nei tempi che viviamo, sembra essere smarrita per sempre (o sembra sempre irragiungibile).
Aire de Dylan è un romanzo atipico, a volte tremendamente comico, altre sinceramente sconclusionato e raffazzonato, che ci invita a perlustrare e a inseguire questa chimera con ironia e intelligenza, con lirismo e, a tratti, con un po’ di sano spirito dadaista.

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