Aire de Dylan, di Enrique Vila-Matas: Amleto ci salverà (o dei
fantasmi che ritornano dal passato e ci parlano del presente)
Enrique Vila-Matas è stato spesso
considerato uno “scrittore per scrittori” per le innumerevoli citazioni dalla
letteratura universale che tempestano le trame dei suoi libri; autore
“borgesiano” come pochi altri, in Spagna, attualmente, Vila-Matas ha fatto
dell’intertestualità non solo (e non tanto) una tecnica letteraria, quanto uno
strumento fondamentale per perlustrare sia la letteratura sia la realtà che ci
circonda. Lo si può comprendere facilmente leggendo opere come Historia abreviada de la literatura portátil
o il trittico metaletterario composto da Bartleby y compañía, El mal
de Montano e Doctor Pasavento
(tutti editi, in Italia, da Feltrinelli – tranne il primo, uscito nel da
Sellerio).
L’ultimo romanzo, Aire de Dylan (Barcelona, Seix Barral, 2012) non fa eccezione alla
regola: il contrasto tra un padre (scrittore) e un figlio (che, come lo
“scrivano” di Melville “preferirebbe di no” – ma qui, il modello per eccellenza
dell’ “uomo senza qualità” è il più volte citato Oblomov, protagonista dell’omonimo
romanzo di Goncharov) è lo spunto da cui parte Vila-Matas per ordire una trama
che si struttura evidentemente sulla prima scena dell’Hamlet: Vilnius (questo il nome del ragazzo, che per la
straordinaria somiglianza con Bob Dylan è chiamato da tutti anche Little Dylan)
riceve letteralmente le visite del padre defunto, Lancastre (nemmeno questo
nome è casuale e ha un’origine chiaramente shakespeariana), che tenta di
“penetrare” nella mente del figlio per spiarne le mosse, spingerlo a vendicare
la propria morte (a quanto pare, causata dall’odio della moglie, Laura Verás –
altro “nombre hablante”) e controllarne l’atteggiamento nei confronti di Débora
(sua giovane amante ed erede letteraria).
Ecco, è da questa famosa scena dell’Amleto che nasce Aire de Dylan: Amleto senior torna da quella “oscura regione da cui
mai nessuno è tornato” (affascinante contraddizione interna del plot – se mai nessuno è tornato perché
lui sì?) per spingere Amelto junior ad aprire gli occhi sull’atteggiamento di
sua madre e sulle colpe (inequivocabili) dello zio Claudio (colpevole di averlo
avvelenato con del veleno versato nell’orecchio).
Lancastre farà lo stesso: solo che in
questo caso, più che “apparire” al figlio Vilnius, “entra” all’interno del suo
cervello, trasmettendogli anche i ricordi personali di un passato che,
anagraficamente, non potrebbe mai riguardare il giovane sosia del cantante
americano.
Ma cosa fa nella vita Vilnius?
All’inizio ci viene spiegato che è un regista cinematografico: piccolo neo, non
ha mai girato un film, solo un cortometraggio, con scarso successo, tra
l’altro. Niente di strano, allora, che Vilnius voglia tornare dietro la
macchina da presa per girare un grandioso e megalomane film sul “fracaso”,
ovvero, sul fallimento, su tutti coloro che, in questa vita, hanno perso la
loro battaglia personale. E non è strano nemmeno, allora, che Vilnius partecipi
a un convegno con un intervento che s’intitola “Teatro de realidad”, in realtà,
un esperimento che tenta di portare a termine nel bel mezzo di una sala piena
di spettatori: l’esperimento riuscirà se Vilnius farà letteralmente scappare
dalla sala i vari partecipanti. E invece? Fallisce, anche questa volta. Tra il
pubblico, c’è il narratore in prima persona che, in modo graduale, inizia ad
interessarsi alle vicende di Vilnius, della fidanzata Débora, delle strani voci
che Vilnius sente nella mente ed attribuisce al padre Lancastre.
Che fine fa il principio di
verosimiglianza in un contesto simile, all’interno di una trama imbastita per
disorientare? Verso la conclusione del romanzo, il narratore che fa da
testimone oculare e segue gli spostamenti e i dialoghi della giovane coppia sembra
accettare le teorie dei “falibilistas”: non ci sono certezze, la vita umana è
regolata dal caso, nessuno di noi potrà mai aspirare alla verità. Ma è anche
Lancastre a sostenere, all’inizio della vicenda, che “Si Dios no tiene unidad,
cómo voy a tenerla yo” (“Se Dio non ha unità, come potrò mai averla io”).
Insomma, e modificando la domanda iniziale: come seguire le disavventure di
Vilnius, Débora, Lancastre e dello stesso narratore-testimone oculare in un
contesto siffatto?
Potremmo rispondere affermando che, in
Aire de Dylan, ancor più che negli
altri suoi romanzi, a Vila-Matas il principio di verosimiglianza non interessa
più. E potremmo apportare prove, spiegando che, in realtà, nello scontro
costante tra Vilnius e Lancastre si ripete lo scontro (tutto contemporaneo e
assolutamente attuale) tra l’istanza di coloro che puntano tutto sulla
“autenticità” (termine molto heideggeriano, sia detto per inciso) e coloro che,
invece, credono nella “postmodernità”; tra chi, come il giovane sosia di Bob
Dylan, pensa che, contro la crisi, non ci sia altra soluzione che “percorrere
la strada dell’insuccesso”, smettere d’agire, di cercare lavoro, di fare soldi,
di scendere a patti con la società che ci influenza – società a sua volta
pesantemente manipolata da certa politica e da certo modo d’intendere
l’economia – e chi, come il vecchio e ormai morto (e ancora per poco fantasma)
Lancastre, pensa che “postmoderno” non sia un aggettivo vuoto o svuotato di
senso, ma la quintessenza dell’arte contemporanea, l’unico humus che può rendere fertile la letteratura (impossibile, per il
lettore che segue Vila-Matas da anni, non intravedere in questa critica al
“postmodernismo” anche una sottile forma di auto-critica).
Insomma, Aire
de Dylan mette in scena (anche teatralmente) la lotta tra due contrastanti
punti di vista: tra chi intende l’arte come “finzione” (e sarà lo stesso
narratore anonimo a sostenere che “siempre se han contado historia y siempre se
contarán”) e come ri-scrittura e ri-elaborazione di opere di autori appartenenti
al passato e alla tradizione letteraria passata e chi, invece, intende l’arte
come “espressione dell’io”, scavo verso l’autenticità e la verità ultima.
Chi ha ragione? Se seguiamo attentamente le parole
del narratore anonimo ci renderemmo conto subito che, in realtà, nessuna delle
due istanze sembra soddisfare a pieno i nostri bisogni e le nostre esigenze (di
“esseri umani”, oltre che di “lettori” o “spettatori” – il cinema e i
riferimenti ad alcuni film della storia del cinema occupano uno spazio considerevole,
all’interno di questo romanzo, più che in qualsiasi altra opera di Vila-Matas).
E allora il lettore smaliziato può anche ipotizzare che il narratore esista,
oltre che per raccontarci le vicende assurde, surreali o tragicomiche dei due
personaggi, anche per creare una sorta di “ponte” metaforico tra due spazi che
sembrano non comunicare tra di loro, tra due “luoghi” (culturali e artistici)
distanti anni luce l’uno dall’altro. Forse l’arte (e la letteratura) sono gli
unici strumenti che abbiamo per arrivare all’ “autenticità”; forse possiamo
coglierla proprio grazie alle “finzioni” (a volte, finzioni al quadrato, come
sono quelle che crea anche Vila-Matas) che l’arte e la letteratura inventano
dai tempi di Omero (sono molti anche i riferimenti alla mitologia classica – da
Ulisse a Ermete, fino ad Arianna). Forse, anche quella frase misteriosa che
ossessiona tanto Vilnius e che lo spinge all’azione (lui che è l’incarnazione
della passività e dell’oblomovismo), quella frase che appare nel film Tres camaradas di Frank Borage, quella
frase che sembra sia stata scritta da uno degli sceneggiatori d’eccezione che
partecipò a quel film ormai dimenticato da tutti (Francis Scott Fitzgerald, a
quanto pare), forse quella frase, dicevo, e che recita: “Cuando oscurece,
siempre necesitamos a alguien” (“Quando cala la notte, si ha sempre bisogno di
qualcuno”), ecco, forse questa frase, che sembra così sdolcinata e banale, è
anch’essa espressione di quell’ “autenticità” che, nei tempi che viviamo,
sembra essere smarrita per sempre (o sembra sempre irragiungibile).
Aire
de Dylan è un romanzo atipico, a volte tremendamente
comico, altre sinceramente sconclusionato e raffazzonato, che ci invita a
perlustrare e a inseguire questa chimera con ironia e intelligenza, con lirismo
e, a tratti, con un po’ di sano spirito dadaista.
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