jueves, julio 11, 2013

Giorgio Scerbanenco, scrittore filosofo






Come per Philip K. Dick, così per Giorgio Scerbanenco: la critica t’insegna che sono scrittori “di genere” (fantascienza l’uno, giallo l’altro) e tu – povero lettore innocente e costante, che cerchi di non seguire la corrente e che te ne freghi alquanto delle “mode del momento” – scopri che non è affatto così, che le cose non stanno nel modo in cui le presenta la “vulgata”, che due così sono scrittori “puros y duros”, di razza, di qualità, di spessore…



L’ho capito leggendo le prime pagine di Venere privata (Milano, Garzanti, 1998), lì dove si descrive fin nei minimi dettagli (ma anche con uso abbondante di “ellissi”) la scena di un incontro a quattro tra il protagonista, l’investigatore malgré lui Duca Lamberti (medico radiato dall’albo per aver applicato la “dolce morte” a una paziente avanti negli anni), il suo “protetto” (o necessitato di “protezione” – soprattutto di tipo psicologico) Davide Auseri e due fanciulle che non disdegnano la compagnia maschile, il buon wiskey e il sesso senza impegni:




“ ‘È più bello qui, ma spegni la radio’ [è una delle fanciulle a parlare, rivolgendosi a Duca Lamberti e questi continua, permettendoci d’intendere i suoi pensieri più intimi] C’era stato un gerarca fascista che durante la guerra di Spagna faceva l’amore lasciando suonare il disco del Bolero di Ravel: lui non voleva arrivare a questo punto” (id., p. 33).




Il lettore curioso a questo punto si ferma e inizia a domandarsi: come suona il Bolero di Ravel? E poi: cosa ne sapeva Scerbanenco della guerra civile spagnola? (Venere privata lo scrisse nel ‘66 e lo pubblicò l’anno dopo; Franco era ancora al potere, dal 1939, per l’esattezza, da quando, cioè, il bando nazionalista aveva vinto la guerra contro il Fronte Popolare, e lo sarebbe stato fino alla sua morte naturale, avvenuta nel 1975). E a quale gerarca fascista sta qui alludendo lo scrittore, attraverso la maschera del suo Duca? Uno legge un giallo (apparentemente buono per la spiaggia, tutto da gustare sotto l’ombrellone) e s’imbatte in questa notazione storica tanto ambigua quanto misteriosa…




E poi ci si imbatte in descrizioni come questa:




“In quel tratto di viale che dall’Arco del Sempione mira al Castello Sforzesco, anche appena passate le dieci del mattino, vi sono sul bordo dello stradone accattivanti figure femminili, d’estate sommariamente ma aderentissimamente vestite che sanno di operare in una grande metropoli dove non vi sono provinciali limiti di orario o conformistiche divisioni tra notte e giorno e che a qualunque ora, dalle 0,00 alle 24,00, un cittadino può rallentare con la sua auto, e fermarsi a chiedere la loro cooperazione” (id., p. 58).




Osservate, cari lettori (o meglio: lettrici, quelle 3 o 4 che ancora mi sopportano), osservate attentamente l’uso degli avverbi: “sommariamente”, ma soprattutto “aderentissimamente”; notate l’uso degli aggettivi: “provinciali” riferito ai “limiti di orario”; “conformistiche” riferito alle “divisioni” tra notte e giorno; guardate l’uso (pieno d’ironia) di quel sostantivo: “cittadino”, applicato al passante (automunito) che chiede la “cooperazione” di quelle donne appostate ai bordi della strada…




Chi vi ricorda? Che stile risuona in questo breve brano descrittivo carico di un tono a metà tra la malinconia e la satira sociale, tra l’ironia amara e l’uso umoristico del linguaggio? Ma Gadda, è ovvio, non ci sono dubbi…




Prendete l’ispettore Ingravallo; mettetelo a passeggiare in questo particolare quartiere di Milano (mai stato a Milano, ma Scerbanenco è geniale nella rappresentazione romanzesca della città; a tratti sembra di essere nella città “perduta” di Blade Runner – Philip K. Dick docet: è una Milano triste, cupa, dove piove sempre o dove fa sempre troppo caldo e la gente passeggia in bici in zone periferiche ancora dedite all’agricoltura; dove le auto sono già troppe e il traffico dà alla testa; dove i taxi non si trovano mai e i tram fanno il loro tipico rumore a ogni curva); attribuitegli la descrizione paesaggistica di cui sopra (spostando il set alla Stazione Termini o a Tiburtina) e essa funzionerebbe ancora, alla perfezione.




E poi la descrizione dei personaggi, primo fra tutti del protagonista, il Duca, un anti-eroe malinconico e stralunato che si ritrova a indagare nonostante il parere contrario dei suoi amici sbirri e che si ritrova a fare da psichiatra per il figlio di un ricco imprenditore che si sente in colpa per la morte di una prostituta con la quale ha avuto una relazione tanto breve quanto platonica… O quella, piena di tenerezza e di acuta empatia, di Livia Ussaro (l’aiutante), colei che collaborerà a risolvere le indagini e a scoprire il colpevole rimettendoci la faccia (nel senso letterale del termine).




Ecco come ce la presenta il narratore esterno, Livia Ussaro, ragazza intraprendente e indipendente, una che vorrebbe praticare la prostituzione solo per dimostrare la verità di una sua particolare “teoria sociologica”:




“Era un po’ troppo kantiana, dietro le sue parole c’erano degli imperativi categorici e dei prolegomeni a qualunque metafisica futura voglia presentarsi come scienza” (id., p. 115).




E prosegue, nella narrazione del coraggio, della voglia di andare fino in fondo, del desiderio di giustizia di Liva Ussaro (una che ti domandi se esiste, nell’Italia del 2013, una che sa vivere anche da sola, che non ha bisogno di un uomo accanto che la protegga, una che gli uomini li squadra e li codifica a partire da gesti, viso, movimenti).




Poi scopro che, prima di vivere della sua scrittura, Giorgio Scerbanenco – una volta morta sua madre, quando lui era ancora un adolescente – ha dovuto fare mille lavori e lavoretti vari, in una Milano in cui i coetanei gli chiedevano sempre: “Sei russo?”. Insomma, il successo di romanzi come Venere privata è arrivato tardi, quando ormai i soldi non avrebbe potuto goderseli e quando ormai la fama sarebbe divenuta postuma…

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