sábado, julio 06, 2013

La biblioteca-mondo di Stephen Dedalus: Ulysses come universo popolato dai fantasmi


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Ulysses (1922) di James Joyce: ecco, è questo il libro di cui possiedo più “doppioni” nella mia biblioteca personale (6 edizioni in tutto, di cui 2 sono traduzioni italiane). Sul frontespizio della prima copia (la traduzione di Giulio de Angelis per Mondadori) leggo la mia firma e la data: 16/05/1996, ovvero: avevo compiuto 19 anni quando iniziai ad appassionarmi a questo romanzo definito dalla critica uno degli anti-romanzi più rivoluzionari del Novecento. Perché – diciamocela tutta la verità – l’Ulisse di Joyce può piacere, nauseare, esaltare o fare schifo, ma una cosa è certa: ha cambiato la letteratura e il modo d’intenderla, di fruirla, di produrla.
16 Giugno del 1904: l’autore ha conosciuto Nora Barnacle in questo (per lui) fatidico giorno e decide di trasformare questa data nella giornata in cui si svolgerà la trama del suo capolavoro. Dalle 8 del mattino alle 2 di notte, Ulisse narra (si fa per dire) gli andirivieni (fisici e, soprattutto, mentali) di Leopold Bloom (il protagonista maschile), di Stephen Dedalus (il co-protagonista più giovane) e di Molly Bloom (la moglie di Leopold) in 18 capitoli scritti in 18 stili differenti sulla falsariga della struttura della trama dell’Odissea di Omero. Un’impresa non facile, come si può ben capire, anche perché Joyce si è divertito ad inserire in ogni capitolo dei piccoli misteri o enigmi la cui risoluzione non appare mai del tutto scontata o chiara (forse perché tale era il proposito dell’autore).
“Ci ho messo tanti enigmi e rebus che i professori avranno da fare per secoli per capire quello che volevo dire, e questo è il solo modo per assicurarsi l’immortalità”: così scriveva l’egocentrico scrittore giramondo (finì di scrivere la sua opera a Parigi, dopo averla concepita a Roma e iniziata a scrivere a Trieste – prima –  e a Zurigo – poi, in base ai vari viaggi e/o traslochi forzati per l’auto-esilio dall’amata-odiata Dublino e per cercare mezzi di sussistenza per lui e sua moglie tra lezioni private d’inglese – tra i suoi allievi anche l’amico Italo Svevo – e contratti a tempo determinato presso banche estere e imprese votate al fallimento – come quella di aprire un cinema, quando l’invenzione dei fratelli Lumière era ancora una novità) a uno dei suoi primissimi ammiratori, il ventenne traduttore francese Benoist-Mèchin…
Questo ci dà l’idea, appunto, dell’enorme megalomania di Joyce, ma anche della certosina pazienza con cui “inventò” la sua odissea personale, parlando, in fin dei conti, non solo e non tanto della Dublino amata-odiata, dell’Irlanda in cui era nato e cresciuto, quanto dell’Universo-Mondo (“de te fabula narratur”, come dicevano i latini; e l’insegna apposta in Via Frattina recita così: “In questa casa romana dove abitò dall’Agosto al Dicembre 1906 JAMES JOYCE esule volontario evocò la storia di Ulisse facendo della sua Dublino il nostro Universo”)
Joyce si concepiva come una sorta di Dio in terra che – con l’uso attento, ironico, istrionico e artigianale del linguaggio – poteva ricreare il mondo per farcelo vedere con occhi diversi. Ecco spiegato il mito di Joyce, un mito che lui stesso fomentò, sin dai primissimi tempi, e dalle primissime pagine del romanzo (c’era perfino chi pensava che Joyce fosse una spia al soldo del Governo inglese – quando viveva in Svizzera – tra le fila tedesche; c’era pure chi pensava che Ulysses contenesse messaggi cifrati o in codice per colpire il “nemico” politico… e quando poi finì con l’essere accusato di “oscenità”, venne bandito negli USA e in Inghilterra perché scambiato per un romanzo “pornografico”…). Anche questo mito può piacere, divertire o annoiare (dipende dai casi): certo è che Joyce si svenò per portare a termine un’opera che iniziò a scrivere effettivamente solo nel 1914 eper poi terminarla nel 1921, ovverossia: 8 anni per raccontare 1 giorno della vita di un piccolo gruppo di cittadini di Dublino…

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E come ogni mito che si rispetti, anche quello joyceano include i suoi rituali: ogni 16 Giugno schiere di fans appassionati celebrano il cosiddetto “Bloomsday” (“la giornata di Bloom”), ripercorrendo l’itinerario del personaggio del romanzo nella Dublino reale di oggi ed omaggiando Joyce con letture del suo romanzo-fiume (o romanzo scritto a suon di “stream of consciousness” o “flussi di coscienza” – una tecnica all’epoca molto in voga tra gente come Marcel Proust o Virginia Woolf, anche se ancora oggi la critica dibatte su cosa includere e cosa no sotto questa etichetta e su quali autori considerare come fautori o promotori di questa tecnica narrativa – a me ora viene in mente ad esempio Benjamin, il bambino disabile che parla a balbettii all’interno di The Sound and the Fury, di William Faulnker – ma la lista sarebbe lunga).
E come ogni fan, anch’io ho i miei capitoli preferiti, tra i 18 di cui sopra. A me piace, ad esempio, il cap. 6, quello che ricalca la discesa di Ulisse all’Ade (il mondo degli inferi), lì dove riceverà la profezia di Tiresia. Joyce fa andare Leopold Bloom al cimitero, per assistere al funerale di un conoscente, e qui il lettore s’imbatterà in una serie di riflessioni sulla morte davvero agghiaccianti (soprattutto per l’analisi spietata che fa il protagonista della nostra carne e degli organi interni del nostro corpo, una volta che si finisce sotto terra).
Ma ammiro molto (e rileggo sempre con piacere) il cap. 17, il penultimo (prima dell’apoteosico monologo finale di Molly Bloom nel 18), quello che rappresenta il “nostos”, ovvero, il ritorno a casa, “Itaca”, tutto sviluppato sotto forma di domande e risposte, secondo un modello dialettico (o presunto tale) che ricorda il catechismo (“Quante volte figliolo?” “Molte, padre”). Muoio dalle risate, ogni volta che lo rileggo, perché alcune domande che il narratore esterno pone ai due personaggi principali (Bloom e Dedalus, ovvero, un padre in cerca di figlio e un figlio in cerca di padre) sono talmente lambiccate, talmente retoriche, talmente arzigogolate che è impossibile non ridere.
E mi piace il cap. 9, “Scilla e Cariddi”, noto anche come il cap. della “Biblioteca”, perché è qui che si svolge un acceso dibattito tra Stephen Dedalus e alcuni suoi amici e compagni di sbronze (e di studi). E su questo capitolo oggi mi soffermo…

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Stephen Dedalus rappresenta, in parte, James Joyce da giovane; inevitabile vedervi rispecchiati alcuni lati del carattere dell’autore; un autodidatta che legge di tutto, che studia, che insegna e che vorrebbe fare lo scrittore (oltre che il critico letterario). Uno che, in quanto a letteratura, ne sa parecchio.
L’intero capitolo si svolge attorno a una teoria che Stephen sviluppa attorno al nodo (teorico) complesso dell’autobiografismo: in che modo e in che senso l’autore di un’opera letteraria è anche il Dio di quell’opera? In che modo chi scrive trascende la propria esperienza personale per parlare al lettore? In che senso si può affermare che dietro ogni opera d’arte si nasconda l’autore – anche quando non usa la prima persona personale e anche quando, intenzionalmente, cerca di sparire davanti agli occhi dei lettori o spettatori?
Stephen ha una teoria che convoglia il misticismo nel piano della letteratura: per spiegare questa sua teoria si appoggia a William Shakespeare. Chi era veramente costui? Dov’è Shakespeare, se ci mettiamo a rileggere i suoi drammi?
Per Stephen Shakespeare si nasconde soprattutto dietro un personaggio, in particolare, ovvero: dietro Amleto senior, il padre di Amleto, principe di Danimarca. Shakespeare si presenta come un fantasma che parla alla sua creatura; Shakespeare è il fantasma che mette in moto la mente e il corpo di Amleto junior, è colui che finge di tornare dal mondo dei morti per dare vita a un’astrazione come quella di Amleto, suo figlio, figlio del suo intelletto, pieno di dubbi e di ripensamenti (e di trame). Ogni dramma di Shakespeare è un dramma autobiografico e mai come in Amleto si capisce quanta base autobiografica vi sia nel teatro shakespeariano. “Nove vite vengono tolte per quell’unica di suo padre”, osserva Stephen, sottilizzando, davanti ai suoi colleghi (intenti ad ascoltarlo, a prenderlo in giro e a confutarne le teorie). Ma Shakespeare è anche Amleto junior, quello che dubita, che ha paura, che non sa se vendicare il padre contro sua madre Gertrude uccidendo suo zio Claudio…
A un certo punto uno dei colleghi di Stephen, con tono canzonatorio, arriva a paragonare il Bardo a Dio: “Egli è il fantasma ed il principe. E’ tutto in tutto”. Stephen gli da ragione. E intanto… mentre la conversazione va avanti, il lettore inizia a pensare: chi era davvero Amleto senior? E perché se Amleto junior ci presenta l’al di là, il mondo dei morti, come una “oscura regione da cui mai nessun viaggiatore ritorna”, Amleto senior torna e riesce perfino a parlare, a intavolare un dialogo con suo figlio? Chi è veramente William Shakespeare?
Cosa si nasconde dietro a un nome?, si chiede ancora qualcuno all’interno della Biblioteca…
Il nome è l’unica cosa che ci rimane attaccata (in modo costante e inviolabile) fino alla morte; ma quando i nostri genitori ci dicono che è quello il nostro nome facciamo fatica a capirlo e ad abituarci (è per questo che i genitori fanno scrivere più volte il nome al figlio, sul primo quaderno di scuola, prima ancora di andare a scuola).
Shakespeare ci viene presentato come una sorta di Dio perché ha saputo cambiare nome e anima e visione del mondo all’interno di ognuno dei suoi personaggi (né uomo né donna, il Bardo viene presentato da Stephen come una sorta di “androgino” – e forse ogni scrittore che si rispetti sfrutta entrambe le sfere in nome dell’androginia). Shakespeare è un fantasma che si è re-incarnato in Amleto (junior e senior), ma anche nel povero Otello e nel malefico, diabolico Yago; in Macbeth, ma pure in Lady Macbeth, la moglie machiavellica che lo induce ad uccidere il Re Duncan.
Stephen sugella la sua teoria (mescolando abilmente la letteratura col misticismo, citazioni da diverse opere letterarie e filosofiche a citazioni da San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino, passando per la Bibbia) con questa affermazione (dai toni, evidentemente, shakespeariani):
“Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi”.
Ecco: qui uno si ferma e capisce. Tutta la teoria di Stephen sull’Amleto e l’autobiografismo shakespeariano, in realtà, serve a dimostrare una cosa: che Ulisse è anch’essa un’opera letteraria autobiografica, che Joyce imita Shakespeare, in questa sua tendenza al nascondimento e che noi – in parte – siamo proprio come quei personaggi che vediamo muoversi sia all’interno del teatro del Bardo sia all’interno del romanzo joyceano. Finché dura la lettura (o la visione dello spettacolo), siamo loro, siamo fratelli adulterini, e mogli, e vedove, siamo Ulisse e siamo Penelope in attesa di suo marito, siamo Circe la maga e il povero e vecchio Anchise, siamo Desdemona la vittima e Otello il carnefice, mentre incontriamo sempre noi stessi… Noi camminiamo attraverso noi stessi… E Ulisse invita al cammino come pochi romanzi sanno fare.

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Questa teoria (o estetica) del fantasma è implicitamente accolta da Leopold Bloom (e dal narratore esterno che ne esplicita i pensieri più intimi) sin dal cap. 6, quello, appunto, che riguarda la personale “discesa agli Inferi” di Bloom. Ne parlerò più estesamente in un altro post (Joyce, come David Foster Wallace, induce alla logorrea e alla digressione). Certo è che se il romanzo nasce come ri-scrittura moderna (e modernista) dell’Odissea, è pur vero che senza Shakespeare e il costante “agone” con il modello shakespeariano probabilmente Ulysses non sarebbe il romanzo (anti-romanzo) che è. Come spiega bene Harold Bloom, la cosiddetta “angoscia dell’influenza” (o “the anxiety of influnce”) può essere estremamente produttiva: Joyce ha studiato l’intero canone occidentale; si è confrontato con Omero e Dante e Goethe e Sterne; ma è solo con Shakespeare che si ferma a riflettere in modo così esplicito; lo rilegge, lo emula, lo ammira, ne resta forse schiacciato, e il fantasma del Bardo non lo abbandonerà più, fino a Finnegans Wake.


P.S.: il fatto che il Bardo faccia la sua apparizione più estesa e diretta all’interno di una biblioteca non può essere ovviamente un fatto puramente casuale. Stephen e i suoi compagni sono circondati dai libri della biblioteca, dalle riviste specializzate, dai giornali e dalla carta stampata del momento; ma l’argomento di discussione che richiama e accende e mantiene viva l’attenzione degli astanti è sempre e solo lui… (anche se appaiono velate allusioni o citazioni dal Don Giovanni di Mozart & Da Ponte, dal Wilhelm Meister di Goethe, dalla Bibbia et alii... et cetera et cetera...)

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