La
biblioteca-mondo di Stephen Dedalus: Ulysses
come universo popolato dai fantasmi
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Ulysses
(1922) di James Joyce: ecco, è questo il libro di cui possiedo più “doppioni”
nella mia biblioteca personale (6 edizioni in tutto, di cui 2 sono traduzioni
italiane). Sul frontespizio della prima copia (la traduzione di Giulio de
Angelis per Mondadori) leggo la mia firma e la data: 16/05/1996, ovvero: avevo
compiuto 19 anni quando iniziai ad appassionarmi a questo romanzo definito
dalla critica uno degli anti-romanzi più rivoluzionari del Novecento. Perché –
diciamocela tutta la verità – l’Ulisse
di Joyce può piacere, nauseare, esaltare o fare schifo, ma una cosa è certa: ha
cambiato la letteratura e il modo d’intenderla, di fruirla, di produrla.
16 Giugno del 1904: l’autore ha conosciuto Nora
Barnacle in questo (per lui) fatidico giorno e decide di trasformare questa
data nella giornata in cui si svolgerà la trama del suo capolavoro. Dalle 8 del
mattino alle 2 di notte, Ulisse narra
(si fa per dire) gli andirivieni (fisici e, soprattutto, mentali) di Leopold
Bloom (il protagonista maschile), di Stephen Dedalus (il co-protagonista più
giovane) e di Molly Bloom (la moglie di Leopold) in 18 capitoli scritti in 18
stili differenti sulla falsariga della struttura della trama dell’Odissea di Omero. Un’impresa non facile,
come si può ben capire, anche perché Joyce si è divertito ad inserire in ogni
capitolo dei piccoli misteri o enigmi la cui risoluzione non appare mai del
tutto scontata o chiara (forse perché tale era il proposito dell’autore).
“Ci ho messo tanti enigmi e rebus che i professori
avranno da fare per secoli per capire quello che volevo dire, e questo è il
solo modo per assicurarsi l’immortalità”: così scriveva l’egocentrico scrittore
giramondo (finì di scrivere la sua opera a Parigi, dopo averla concepita a Roma
e iniziata a scrivere a Trieste – prima –
e a Zurigo – poi, in base ai vari viaggi e/o traslochi forzati per
l’auto-esilio dall’amata-odiata Dublino e per cercare mezzi di sussistenza per
lui e sua moglie tra lezioni private d’inglese – tra i suoi allievi anche
l’amico Italo Svevo – e contratti a tempo determinato presso banche estere e
imprese votate al fallimento – come quella di aprire un cinema, quando
l’invenzione dei fratelli Lumière era ancora una novità) a uno dei suoi
primissimi ammiratori, il ventenne traduttore francese Benoist-Mèchin…
Questo ci dà l’idea, appunto, dell’enorme megalomania
di Joyce, ma anche della certosina pazienza con cui “inventò” la sua odissea
personale, parlando, in fin dei conti, non solo e non tanto della Dublino
amata-odiata, dell’Irlanda in cui era nato e cresciuto, quanto
dell’Universo-Mondo (“de te fabula narratur”, come dicevano i latini; e
l’insegna apposta in Via Frattina recita così: “In questa casa romana dove abitò
dall’Agosto al Dicembre 1906 JAMES JOYCE
esule volontario evocò la storia di Ulisse facendo della sua Dublino il nostro
Universo”)
Joyce si concepiva come una sorta di Dio in terra che –
con l’uso attento, ironico, istrionico e artigianale del linguaggio – poteva
ricreare il mondo per farcelo vedere con occhi diversi. Ecco spiegato il mito
di Joyce, un mito che lui stesso fomentò, sin dai primissimi tempi, e dalle
primissime pagine del romanzo (c’era perfino chi pensava che Joyce fosse una
spia al soldo del Governo inglese – quando viveva in Svizzera – tra le fila
tedesche; c’era pure chi pensava che Ulysses
contenesse messaggi cifrati o in codice per colpire il “nemico” politico… e
quando poi finì con l’essere accusato di “oscenità”, venne bandito negli USA e
in Inghilterra perché scambiato per un romanzo “pornografico”…). Anche questo
mito può piacere, divertire o annoiare (dipende dai casi): certo è che Joyce si
svenò per portare a termine un’opera che iniziò a scrivere effettivamente solo
nel 1914 eper poi terminarla nel 1921, ovverossia: 8 anni per raccontare 1
giorno della vita di un piccolo gruppo di cittadini di Dublino…
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E come ogni mito che si rispetti, anche quello joyceano
include i suoi rituali: ogni 16 Giugno schiere di fans appassionati celebrano
il cosiddetto “Bloomsday” (“la giornata di Bloom”), ripercorrendo l’itinerario
del personaggio del romanzo nella Dublino reale di oggi ed omaggiando Joyce con
letture del suo romanzo-fiume (o romanzo scritto a suon di “stream of
consciousness” o “flussi di coscienza” – una tecnica all’epoca molto in voga
tra gente come Marcel Proust o Virginia Woolf, anche se ancora oggi la critica
dibatte su cosa includere e cosa no sotto questa etichetta e su quali autori
considerare come fautori o promotori di questa tecnica narrativa – a me ora
viene in mente ad esempio Benjamin, il bambino disabile che parla a balbettii
all’interno di The Sound and the Fury,
di William Faulnker – ma la lista sarebbe lunga).
E come ogni fan, anch’io ho i miei capitoli preferiti,
tra i 18 di cui sopra. A me piace, ad esempio, il cap. 6, quello che ricalca la
discesa di Ulisse all’Ade (il mondo degli inferi), lì dove riceverà la profezia
di Tiresia. Joyce fa andare Leopold Bloom al cimitero, per assistere al
funerale di un conoscente, e qui il lettore s’imbatterà in una serie di
riflessioni sulla morte davvero agghiaccianti (soprattutto per l’analisi
spietata che fa il protagonista della nostra carne e degli organi interni del
nostro corpo, una volta che si finisce sotto terra).
Ma ammiro molto (e rileggo sempre con piacere) il cap.
17, il penultimo (prima dell’apoteosico monologo finale di Molly Bloom nel 18),
quello che rappresenta il “nostos”, ovvero, il ritorno a casa, “Itaca”, tutto
sviluppato sotto forma di domande e risposte, secondo un modello dialettico (o
presunto tale) che ricorda il catechismo (“Quante volte figliolo?” “Molte,
padre”). Muoio dalle risate, ogni volta che lo rileggo, perché alcune domande
che il narratore esterno pone ai due personaggi principali (Bloom e Dedalus,
ovvero, un padre in cerca di figlio e un figlio in cerca di padre) sono
talmente lambiccate, talmente retoriche, talmente arzigogolate che è
impossibile non ridere.
E mi piace il cap. 9, “Scilla e Cariddi”, noto anche
come il cap. della “Biblioteca”, perché è qui che si svolge un acceso dibattito
tra Stephen Dedalus e alcuni suoi amici e compagni di sbronze (e di studi). E
su questo capitolo oggi mi soffermo…
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Stephen Dedalus rappresenta, in parte, James Joyce da
giovane; inevitabile vedervi rispecchiati alcuni lati del carattere
dell’autore; un autodidatta che legge di tutto, che studia, che insegna e che
vorrebbe fare lo scrittore (oltre che il critico letterario). Uno che, in
quanto a letteratura, ne sa parecchio.
L’intero capitolo si svolge attorno a una teoria che
Stephen sviluppa attorno al nodo (teorico) complesso dell’autobiografismo: in
che modo e in che senso l’autore di un’opera letteraria è anche il Dio di
quell’opera? In che modo chi scrive trascende la propria esperienza personale per
parlare al lettore? In che senso si può affermare che dietro ogni opera d’arte
si nasconda l’autore – anche quando non usa la prima persona personale e anche
quando, intenzionalmente, cerca di sparire davanti agli occhi dei lettori o
spettatori?
Stephen ha una teoria che convoglia il misticismo nel
piano della letteratura: per spiegare questa sua teoria si appoggia a William
Shakespeare. Chi era veramente costui? Dov’è Shakespeare, se ci mettiamo a
rileggere i suoi drammi?
Per Stephen Shakespeare si nasconde soprattutto dietro
un personaggio, in particolare, ovvero: dietro Amleto senior, il padre di
Amleto, principe di Danimarca. Shakespeare si presenta come un fantasma che
parla alla sua creatura; Shakespeare è il fantasma che mette in moto la mente e
il corpo di Amleto junior, è colui che finge di tornare dal mondo dei morti per
dare vita a un’astrazione come quella di Amleto, suo figlio, figlio del suo
intelletto, pieno di dubbi e di ripensamenti (e di trame). Ogni dramma di
Shakespeare è un dramma autobiografico e mai come in Amleto si capisce quanta base autobiografica vi sia nel teatro
shakespeariano. “Nove vite vengono tolte per quell’unica di suo padre”, osserva
Stephen, sottilizzando, davanti ai suoi colleghi (intenti ad ascoltarlo, a
prenderlo in giro e a confutarne le teorie). Ma Shakespeare è anche Amleto
junior, quello che dubita, che ha paura, che non sa se vendicare il padre
contro sua madre Gertrude uccidendo suo zio Claudio…
A un certo punto uno dei colleghi di Stephen, con tono
canzonatorio, arriva a paragonare il Bardo a Dio: “Egli è il fantasma ed il
principe. E’ tutto in tutto”. Stephen gli da ragione. E intanto… mentre la
conversazione va avanti, il lettore inizia a pensare: chi era davvero Amleto
senior? E perché se Amleto junior ci presenta l’al di là, il mondo dei morti,
come una “oscura regione da cui mai nessun viaggiatore ritorna”, Amleto senior
torna e riesce perfino a parlare, a intavolare un dialogo con suo figlio? Chi è
veramente William Shakespeare?
Cosa si nasconde dietro a un nome?, si chiede ancora
qualcuno all’interno della Biblioteca…
Il nome è l’unica cosa che ci rimane attaccata (in modo
costante e inviolabile) fino alla morte; ma quando i nostri genitori ci dicono
che è quello il nostro nome facciamo fatica a capirlo e ad abituarci (è per
questo che i genitori fanno scrivere più volte il nome al figlio, sul primo
quaderno di scuola, prima ancora di andare a scuola).
Shakespeare ci viene presentato come una sorta di Dio
perché ha saputo cambiare nome e anima e visione del mondo all’interno di
ognuno dei suoi personaggi (né uomo né donna, il Bardo viene presentato da
Stephen come una sorta di “androgino” – e forse ogni scrittore che si rispetti
sfrutta entrambe le sfere in nome dell’androginia). Shakespeare è un fantasma
che si è re-incarnato in Amleto (junior e senior), ma anche nel povero Otello e
nel malefico, diabolico Yago; in Macbeth, ma pure in Lady Macbeth, la moglie
machiavellica che lo induce ad uccidere il Re Duncan.
Stephen sugella la sua teoria (mescolando abilmente la
letteratura col misticismo, citazioni da diverse opere letterarie e filosofiche
a citazioni da San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino, passando per la Bibbia)
con questa affermazione (dai toni, evidentemente, shakespeariani):
“Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando
ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini,
ma sempre incontrando noi stessi”.
Ecco: qui uno si ferma e capisce. Tutta la teoria di
Stephen sull’Amleto e
l’autobiografismo shakespeariano, in realtà, serve a dimostrare una cosa: che Ulisse è anch’essa un’opera letteraria
autobiografica, che Joyce imita Shakespeare, in questa sua tendenza al
nascondimento e che noi – in parte – siamo proprio come quei personaggi che
vediamo muoversi sia all’interno del teatro del Bardo sia all’interno del
romanzo joyceano. Finché dura la lettura (o la visione dello spettacolo), siamo
loro, siamo fratelli adulterini, e mogli, e vedove, siamo Ulisse e siamo
Penelope in attesa di suo marito, siamo Circe la maga e il povero e vecchio
Anchise, siamo Desdemona la vittima e Otello il carnefice, mentre incontriamo
sempre noi stessi… Noi camminiamo attraverso noi stessi… E Ulisse invita al cammino come pochi romanzi sanno fare.
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Questa teoria (o estetica) del fantasma è implicitamente
accolta da Leopold Bloom (e dal narratore esterno che ne esplicita i pensieri
più intimi) sin dal cap. 6, quello, appunto, che riguarda la personale “discesa
agli Inferi” di Bloom. Ne parlerò più estesamente in un altro post (Joyce, come
David Foster Wallace, induce alla logorrea e alla digressione). Certo è che se
il romanzo nasce come ri-scrittura moderna (e modernista) dell’Odissea, è pur vero che senza
Shakespeare e il costante “agone” con il modello shakespeariano probabilmente Ulysses non sarebbe il romanzo
(anti-romanzo) che è. Come spiega bene Harold Bloom, la cosiddetta “angoscia
dell’influenza” (o “the anxiety of influnce”) può essere estremamente
produttiva: Joyce ha studiato l’intero canone occidentale; si è confrontato con
Omero e Dante e Goethe e Sterne; ma è solo con Shakespeare che si ferma a
riflettere in modo così esplicito; lo rilegge, lo emula, lo ammira, ne resta
forse schiacciato, e il fantasma del Bardo non lo abbandonerà più, fino a Finnegans Wake.
P.S.: il fatto che il Bardo faccia la sua apparizione
più estesa e diretta all’interno di una biblioteca non può essere ovviamente un
fatto puramente casuale. Stephen e i suoi compagni sono circondati dai libri
della biblioteca, dalle riviste specializzate, dai giornali e dalla carta
stampata del momento; ma l’argomento di discussione che richiama e accende e
mantiene viva l’attenzione degli astanti è sempre e solo lui… (anche se appaiono velate allusioni o citazioni dal Don Giovanni di Mozart & Da Ponte, dal Wilhelm Meister di Goethe, dalla Bibbia et alii... et cetera et cetera...)
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