Antonio Gramsci e le Lettere
dal carcere
Mai avrei immaginato
che la lettura di questo “testamento umano” (come si suol dire, a volte in modo
grossolano o fin troppo giornalistico) potesse essere così avvincente.
Ciò che più colpisce
delle Lettere dal carcere è il tono
assunto da chi le scrive: Antonio Gramsci sa che si trova in carcere per il suo
pensiero politico; sa che il regime vuole azzittirlo; sa pure che finirà per
morirci in carcere (anche se continua ad essere ottimista e a mantenere la
calma fino all’ultimo) e, nonostante tutto, si sforza di difendere la propria
vita dalle storpiature, dai “vizi” e dai molteplici ostacoli che implica la
priogionia.
Leggendolo, sorprende
vedere come instaura un rapporto intimo privilegiato con Tania, sua cognata,
una figura fondamentale che gli permette di mantenere un rapporto diretto con
la famiglia e con il mondo esterno; soprende vedere come – col passare degli
anni – va deteriorandosi il rapporto con Giulia, sua moglie, vittima di
disturbi psichici che cerca di risolvere con la psicoanalisi freudiana (cui
Gramsci non crede); colpisce e sorprende e fa una certa compassione vedere come
Gramsci si preoccupa, comunque, dell’educazione dei due figli, cui manda
lettere di una tenerezza incredibile, anche se non li ha mai visti dal vivo,
anche se sa come sono fatti solo grazie a foto a volte sbiadite (il
“prigioniero politico” si lamenta della cattiva qualità delle fotografie che
moglie e cognata gli inviano per dargli l’illusione di poter vedere come
crescono i due bambini). E sorprende, colpisce e fa venire davvero i brividi
vedere come un uomo privato della libertà continua a sentirsi libero grazie ai
libri: soprattutto nei primi anni della prigionia (dal 1927 al ‘32), Gramsci
chiede in continuazione nuovi libri a Tania e delinea una serie di progetti che
vorrebbe portare avanti anche da dentro la prigione: una ricerca sulla figura
dell’ “intellettuale” in Italia; una sul Machiavelli; una di linguistica
generale; una “notarella” (come la definisce lui) sul canto X dell’Inferno dantesco (quello su Farinata e
Cavalcanti); uno sul successo della filosofia idealista di Benedetto Croce; uno
sul teatro di Pirandello (così all’avanguardia, all’epoca, e ancora oggi)…
Antonio Gramsci legge
avidamente di tutto e in varie lingue (soprattutto inglese e francese, anche se
vorrebbe migliorare il suo russo e il rumeno); si appassiona per i racconti di
Kipling e Wells; racconta delle novelle divertenti e d’un umorismo a volte
macabro a Tania e ai figli; critica i saggi che considera insulsi in poche
righe e senza censure; si sorprende se la cognata dimentica di rinnovare il
pagamento dell’abbonamento mensile alle riviste che i capi fascisti gli
permettono di consultare. Insomma, Gramsci mostra uno stoicismo che ha
dell’incredibile e continua credere nella vita, anche quando la depressione
sembra avere la meglio, anche quando il “potere” politico che vuole annientarlo
sembra complottare affinché non esca mai più di prigione.
Ecco cosa scrive il
12 Settembre del 1927:
Tutta questa vita mi
ha rinsaldato il carattere. Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare
perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando
dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e
sulle proprie forze; non attenderci niente da nessuno e quindi non procurarsi
delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e
andare per la propria via (p. 62 dell’ed. Einaudi del 2011).
Lo scrive a Carlo,
che se non ricordo male è suo fratello, ovvero: uno che soffre in prigione
scrive all’altro che gode di tutte le libertà per fargli coraggio, per
spingerlo ad accettare la nuova situazione familiare! E poi aggiunge (p. 63),
offrendo al lettore una sorta di definzione semplice e diretta di sé stesso: “Credo
di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e
che non le baratta per niente al mondo”.
Quante volte, di
fatto, Gramsci si preoccuperà di spiegare alla madre che non è finito in
carcere per aver rubato o ucciso qualcuno, ma perché è quella la sua posizione:
negarsi ad accettare gli ordini che vengono dall’alto; non scendere a
compromessi con Mussolini…
Il 3 Ottobre del 1932
ribadisce questo suo pensiero (quanto dura sia stata la sua vita e quanto abbia
dovuto contare solo sulle sue forze) all’amata Tania:
Del resto non devi
credere che io abbia intenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come un cane
morto, al filo della corrente. Mi digiro da me da molto tempo e mi dirigevo da
me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11 anni,
guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane
al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e
me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo
di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo
l’aspetto brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male (id., p.
235).
E poi ci sono i
momenti di felicità: quando l’insonnia gli dà tregua e riesce a dormire qualche
ora e l’intestino non gli dà problemi e torna a divorare libri (riesce a
leggerne anche uno al giorno) e s’interessa per il mondo esterno (ma ci sono
scene in cui è il mondo esterno a fare l’ingresso nel mondo interno del
carcere: come quando narra dei suoi tentativi di addestramento di un topo, di
qualche uccellino che ha perso la direzione o di altri insetti domestici.
Ecco: se uno pensa a
quello che dovuto sopportare un uomo come Gramsci in un’Italia come quella in
cui gli toccò vivere; se uno pensa a quanta forza avesse, nonostante la
privazione della libertà, e a come fosse lui a cercare di dare forza ai parenti
che vivevano nel mondo “di fuori” liberi; se uno pensa a tutte queste cose e a
che cosa è diventata la politica italiana di oggi, non può non provare dei
brividi e un senso enorme di gratitudine verso Antonio Gramsci e il suo
pensiero e i suoi sforzi di mantenere la calma in una situazione estrema che
avrebbe schiacciato chiunque.
Il 18 Maggio del 1931
si rivolge alla moglie e le scrive una frase che sembra tratta da Shakespeare
(anche se scritta con un certo tono ironico o quasi auto-ironico): “In
conclusione: il mondo è grande e terribile e complicato, e noi stiamo
diventando di una saggezza che diventerà proverbiale”.
Non so quanto fosse
cosciente di quanta saggezza stesse esprimendo con questa frase lapidaria,
diretta e limpida come molte di quelle che compongono queste Lettere dal carcere.
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