Umberto
Eco
20 Febbraio del 2016. Questa
mattina la prima notizia di cui sono venuto a conoscenza dai “social media” è stata
la morte di Umberto Eco. Facebook è
intasato d’immagini e di link ad articoli che ne parlano, ricordando l’importanza
di Eco nel panorama culturale e letterario non solo italiano, ma internazionale
(forse è stato lo scrittore italiano più noto all’estero, in questi ultimi 40
anni).
Da Whatsapp anche mia madre mi avvisa e mi scrive, con tono mesto: “Hai
visto? E’ morto Umberto Eco”, come se fosse un parente o un’amico di famiglia…
E così altre amiche: “Appena
l’ho saputo ho pensato a te”, come se davvero avessi fatto pubblicità ad Eco
presso le mie conoscienze.
L’ultima volta che lo vidi
in televisione fu un mese fa circa: uno dei giornalisti più bravi di Spagna lo
intervistava sul concetto di “macchina del fango”. Gli spagnoli non hanno una
traduzione esatta e concreta per questa espressione così “nostra” e “nostrana”,
così italiana e l’esimio semiologo provava a spiegargliela con alcuni esempi
brevi, ma molto efficaci. Aveva pochissimi capelli, ora, e la barba ancora più
bianca; gli occhi ancora più infossati, dietro le lenti dei suoi storici
occhiali, e le rughe del collo più marcate.
L’ultima volta che lo vidi
dal vivo fu ad un congresso organizzato dall’Università di Roma Tre. Ci parlò
di James Joyce e delle avanguardie letterarie dei primi del Novecento,
riflettendo sul concetto di “tradizione” e di “innovazione”. Ricordo che gli
studenti lo ascoltavano come si ascolta la narrazione di una favola da parte di
un nonno; erano imbambolati, e così io e gli altri colleghi presenti all’evento.
Ricordo quando si mise a raccontarci cosa contenesse il cassetto di Leopold
Bloom e come Molly reagisse al rientro (in tarda notte: le 2) di suo marito,
quando lo aveva appena tradito con un altro.
L’ultimo libro che ho
comprato di Eco è stato il suo ultimo romanzo Numero Zero (2015): lo lessi a Natale, ma non mi convinse molto,
anche se i brani in cui il narratore parla dei due Mussolini, della fuga dell’originale
e della sostituzione con un sosia che poi sarebbe finito impiccato a Piazzale
Loreto erano interessanti, e anche alquanto inquietanti, per il finale
alternativo che offrivano su un fatto centrale per la Storia d’Italia (e mi
venne in mente il finale di Inglorious
Basterds di Quentin Tarantino, dove addirittura il regista s’inventava un
finale positivo, un happy end apoteosico sulla morte di Hitler, per mano di un
gruppo di fuoriusciti ebrei americani).
L’ultimo libro di Eco che ho
provato a portare in Spagna dall’Italia è stato Scritti sul pensiero medievale, un bellissimo tomo, un libro
elegantemente stampato come si faceva un tempo per i “libri importanti”, apparso
per Bompiani nel 2012, in cui – in circa 1300 pagine – Eco stesso raccoglieva
tutte le sue opere principali di argomento medievale, a partire dalla sua
stessa tesi di laura sul pensiero e l’estetica di San Tommaso d’Aquino. Pesava
troppo, il tomo, e dovetti rinunciare (speriamo di avere più fortuna al
prossimo tentativo, a Pasqua, quando riattererò in patria).
L’ultimo libro di Eco che ho
prestato a qualcuno è stato Vertigine
della lista, del 2009, se non ricordo male: lo lesse avidamente la mia
compagna di avventure e ne rimase abbagliata per la ricchezza delle immagini e
l’apparente infinità dei riferimenti letterari. Un libro sulle enumerazioni,
sugli elenchi che sembrano non finire mai, sulle liste che, appunto, potrebbero
andare avanti all'infinito... Era una
tecnica che conoscevo già da Il nome
della rosa, il romanzo che – come si suol dire in gergo giornalistico –
catapultò Eco sul palcoscenico della fama internazionale...Un giallo, un romanzo
storico, una specie di thriller, una specie di trattato di letteratura in cui
si ipotizzava l’esistenza della seconda parte della Poetica di Aristotele, quella in cui lo Stagirita si sarebbe
presuntamente occupato della “commedia” e del “comico”, temi scomodi in un’abbazia
gestita da monaci in cui serpeggiano tutti e sette i peccati capitali...
E poi Dire quasi la stessa cosa, un bel saggio sulla traduzione, e poi Scritti letterari, e poi Kant e l’ornitorinco, insomma, la lista
la conosciamo tutti e non è il caso di farla per intero.
Ricordo solo che quando
lessi Il nome della rosa, a 16 anni,
mi sentii sperso: non sapevo esattamente dove poter poggiare i piedi, andavo
avanti e mi domandavo dove volesse arrivare l’autore, mi annoiavo, e poi volevo
seguire la storia fino a scoprire la verità, perché avvertivo che c'era una
verità da scoprire all’interno di quello spazio “narrativo” e architettonico
così magnificamente ricostruito con le sole parole.
Ricordo l’italiano
maccheronico e il latino volgare dell’incipit di Baudolino, uno dei libri più “felici” e “allegri” di Eco; e ricordo
i vuoti di memoria, i salti temporali e l’uso efficace delle immagini nel corpo
del testo nella trama de La misteriosa
fiamma della Regina Loana, forse il miglior romanzo di Eco, quello in cui
ci parla più di sé.
E fare tutto questo
resoconto mi rende malinconico, perché penso che a partire da oggi non ci sarà
più modo di leggere “l’ultimo di Eco”. Non potrò più svagarmi con i suoi
romanzi multi-strato; non potrò più riflettere come un semiologo di razza
con i suoi saggi dotti e sempre ironici.
Umberto Eco: una delle menti
più acute d’Italia, uno di quegli studiosi che non smettevano mai di fare
ricerca; uno che ora mi piace immaginare a colloquio con il suo “amico” San
Tommaso d’Aquino (quanti dibattiti, quante discussioni ad infinitum, queste sì, ad
libitum)…
*conoscenze
ResponderEliminarCaspita! Conoscenze! Che svista imperdonabile! (l'influsso dello spagnolo...che, a volte, a tratti, mi fa traballare l'italiano)
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