viernes, agosto 03, 2007

Il tempo ritrovato nelle macerie: W. G. Sebald e la narrativa per immagini

Se c’è un aspetto che colpisce macroscopicamente nella scrittura di W. G. Sebald (autore austriaco nato nel 1944 in un paesino delle Alpi Bavaresi e morto in un incidente stradale vicino a Norfolk nel 2001) è la presenza costante di immagini inserite nel corpo del testo a riprova del fatto che quanto il narratore dice non è frutto esclusivo della propria fantasia, ma è esistito davvero, ha avuto una sua “presenza empirica” nel mondo reale (o nell’ambito di ciò che, per convenzione linguistica, siamo soliti designare col termine “reale” - anche se quanto leggiamo sembra essere frutto dell'immaginazione più "romanzesca" possibile e immaginabile).
Il primo libro che scoprii per caso di Sebald aveva un titolo strano, che in spagnolo suonava ancora più “raro”: Historia natural de la destrucción, apparso postumo nel 2004, se non erro, riuscì a catturare la mia attenzione che vagava tra saggi di critica letteraria e romanzi horror di serie B. Il libro parlava (o meglio: parla, non è morto, come il suo autore, ahimè) di una pagina nera della Storia Contemporanea della Germania della Seconda Guerra Mondiale: i bombardamenti a tappeto che gli Alleati pianificarono contro i nazisti con lo scopo primordiale di ridurre in ginocchio e alla resa definitiva il nemico. Ricordo ancora una foto in cui si vede una cameriera intenta a lustrare uno specchio appeso a una parete (o era una finestra?), unica porzione superstite di una casa completamente rasa al suolo. E’ difficile riprodurre o spiegare il pathos che sprigionano queste fotografie. Ricordo anche la foto di due piedi, calzati in un paio di scarpe di cuoio ridotte in brandelli (i brandelli mescolati senza sorta di continuità con i pezzi di stoffa grezza dei calzini; i piedi sono piccoli, evidentemente appartengono a un bambino o ad un adolescente, non ci sono didascalie che chiariscano l’arcano, dobbiamo e possiamo intuirlo solo dalle parole del narratore).
Più noiosa, invece, la parte in cui l’autore, da saggista qual’era, cerca di scandagliare la letteratura tedesca scritta immediatamente dopo la fine del conflitto per verificare come e perché molti autori si chiusero a riccio o adottarono il silenzio, o l’autocensura, nei confronti di quella tragedia. Intere città rase al suolo, con effetti simili, se non peggiori, a quelli causati dal lancio della prima bomba atomica su Hiroshima e nessuno, tra intellettuali impegnati o romanzieri di fama, che avesse preso posizione dinanzi alle migliaia di morti e feriti caduti sul suolo patrio.
Poi è stata la volta di Austerlitz: lo comprai in Italia, ma lo lessi a Madrid, restando folgorato dalla storia angosciante e comicamente triste dell’individuo omonimo del titolo. Un bambino cresce in una famiglia medio-borghese e i familiari riescono a nascondergli l’avvento del nazismo, gli orrori dei campi di concentramento e delle persecuzioni razziali, fino a quando non cresce e, diventato adulto, compie una sorta di ricerca del tempo perduto, riscoprendo, all’indietro, le sue antiche origini ebraiche, tra foto d’epoca e d’infanzia, pubblicistica antiquata e paesaggi evocativi di un mondo che non c’è più (non scorderò mai l’evocazione della stazione d’Orsay, prima che divenisse l’attuale Museo parigino, né l’analisi delle origini del manicomio di Bedlam, vicino a Londra, famoso anche tra i letterati del 700 – ne ho trovato tracce nel Sentimental Journey del reverendo Sterne, oltre che nel – di poco – successivo The Man of Feeling, dello scozzese Henry Mackenzie; le ricerche sono continuate nel corso degli anni, anche attraverso internet: oggi esiste un museo dedicato ai freaks più famosi ospitati in quel luogo dedito alla cura delle malattie mentali e ormai chiuso per sempre).
Ora che mi fermo a pensarci Sebald è uno dei pochi autori i cui libri possiedo in versioni diverse dall’italiano: comprai, come ho già ricordato in un post precedente, Les émigrants in francese e gli introvabili The Rings of Saturn in inglese. Oltre a questi titoli, ho anche, in italiano, la raccolta di racconti Vertigini e in spagnolo la raccolta di saggi di critica letteraria Pútrida patria (il cui titolo originale, però, dovrebbe essere, in italiano, Camposanto, termine – oltre che luogo - che riassume bene parte della poetica a volte cupa, altre “decadente”, dell’autore - ma non manca mai l'ironia e un peculiare senso dello "humor" in questo autore schivo, anche quando parla di "distruzione", "morti" e "tracce che scompaiono sulla sabbia").
Spagnolo, francese, inglese, italiano. Peccato che non conosca il tedesco.
The Rings of Saturn (ovvero: “Gli anelli di Saturno”) è forse la sua opera migliore. Si tratta di dieci racconti attraverso i quali l’autore ripercorre, rievocandoli, i suoi viaggi di perlustrazione intorno alla costa dell’Inghilterra dell’Est. Guidato da un acutissimo senso della morte e della lenta metamorfosi di tutte le cose in polvere, in fumo, in nulla, sotto l’astro letterario del grande maestro di stile Sir Thomas Browne (un medico inglese della seconda metà del XVIII sec., ossessionato dai cadaveri – e da ciò che resta, per poco, dopo che saremo morti), oltre che da certi ghigni metaletterari alla Borges, Sebald ci accompagna in un viaggio nello spazio che è anche e contemporaneamente un viaggio nel corso del tempo. Anche in questo libro il lettore resterà sorpreso dalla presenza di foto sconcertanti. Come quelle dei resti di alcune costruzioni militari smantellate intorno agli anni 70 nel promontorio di Orford, un luogo sperduto in cui gli inglesi compivano i loro esperimenti nucleari per non essere da meno delle due potenze che spaccavano il mondo durante gli anni della Guerra Fredda (gli USA, da un lato, e l'URSS, dall'altro). Il lettore che contempli le foto senza leggere il testo non riuscirebbe ad attribuire uno spazio geografico certo a quei paesaggi. “I imagined myself amidst the remains of our own civilization after its extinction in some future catastrophe”, commenta l’autore, che, come spesso succede, qui è anche narratore e personaggio protagonista della storia che ci racconta. “Mi immaginavo come se fossi tra i detriti della nostra civiltà dopo la sua stessa estinzione in qualche futura catastrofe”: non trovo definizione migliore per la scrittura di Sebald, la quale nasce dalla contemplazione di ciò che resta, nel tempo, e si eleva al di sopra del contingente per portarci a riflettere proprio sulla finitezza del tempo e sulla falsa eternità che acquistano gli oggetti, i monumenti, le date e le persone una volta che il loro tempo è trascorso e si è definitivamente consumato (ma il tempo si consuma davvero? Le foto non servono a "eternizzare" quanto accaduto e una volta era "presente"? Rileggere con attenzione il saggio La chambre claire di Roland Barthes).
Sebald cattura con una prosa scarna e ipnotizza mentre riflette sulla “deperibilità” stessa della propria esperienza vitale. Morì vicino a Norfolk, lì dove si pensa che vennero rinvenute le ossa di Sir Thomas Browne, il quale, a sua volta, aveva dedicato bellissime pagine proprio al destino delle nostra ossa una volta sepolti: quelle parole vennero tradotte, prima, e parafrasate, poi, dallo spagnolo Javier Marías, in un suo libro che, guarda caso, s’intitolava El siglo e così suonano (ancora oggi, per chi abbia voglia di leggerle):

“¿quién conoce el destino de sus huesos, o cuántas veces lo habrán de enterrar? ¿Quién posee el oráculo de sus cenizas, o sabe hasta dónde llegarán a esparcirse? ¿Quién intuye qué pisadas hollarán su tumba, o cuántas urnas se volcarán? ¿Quién el tacto y forma de su calavera, o el humo pestífero de sus propias reliquias?”.

Ovvero:

“chi conosce il destino delle proprie ossa o quante volte verranno sotterrate? Chi possiede l’oracolo delle sue ceneri, o sa fino a quando dovranno essere sparse? Chi intuisce quali orme verranno lasciate sulla propria tomba, o quante urne verranno rovesciate? Chi il tatto o la forma del proprio teschio, o il fumo pestilenziale delle proprie reliquie?”.

L’ultimo racconto de Gli Anelli di Saturno si chiude con un immagine icastica del trapasso: Browne credeva che si dovessero coprire tutte le superfici riflettenti della casa del morto per evitare che questi potesse vedersi specchiato e, così, distrarsi o rattristarsi per quanto si lasciava dietro le spalle (la vita terrena; che gli specchi riproducono, ingannandoci perfino al momento del distacco). Mi chiedo, ora, a distanza di 6 anni dalla sua scomparsa: dove sarà mai sepolto W. G. Sebald? Una cosa è certa: i suoi libri ci parlano e continueranno a farlo, almeno finchè esisteranno lettori curiosi e inquieti pronti a partire per viaggi intergalattici intorno a questa nostra povera Terra, piena di immagini morte o ambigue e affascinanti, che continuano a guardarci e a spiegarci, forse, chi siamo.

2 comentarios:

  1. complimenti per la notevole e copiosa produzione degli ultimi tempi... ti seguo sempre con affetto e nostalgia.
    Hasta pronto
    R.

    ResponderEliminar
  2. Mi sa che il fatto che sia "copiosa" inizia ad essere indice di follia (forse la solitudine forzata mi fa svalvolare!).Comunque, ti ringrazio, Cupiditas!Un beso y un abrazo grande y ojala vuelvan pronto los "tiempos mejores"!Hasta prontito!A.

    ResponderEliminar

 Il passato che torna Ieri ho fatto una cosa che avrei dovuto evitare: ho aperto una cartella piena di foto del passato e, ovviamente, il pa...