viernes, septiembre 21, 2007

La mano incantata


E' così che s'intitola la foto qui affianco, di Ralph Gibson, fotografo di cui ignoravo perfino l'esistenza prima di leggere il bellissimo, suadente e romantico saggio di Philippe Dubois su L'atto fotografico (Urbino, Quattroventi, 1996 - l'originale francese è del 1983; all'epoca avevo appena 6 anni, ma ero già affascinato dalle immagini fotografiche, anche se odiavo farmi fotografare, mia madre mi diceva che "uscivo sempre con gli occhi chiusi", deve essere inversamente proporzionale, la mia sensibilità alla luce - solare - con la mia voglia di guardare, catalogare il mondo per immagini, osservare quante più immagini possibili si può, riempirmi la retina di foto...).

Questa foto colpisce per tutti i buoni motivi che elenca Dubois (ricordo che l'analizza in uno dei capitoli finali del libro, quando parla dell'importanza del fuori campo o off dell'immagine fotografica: quanto sia importante ai fini della comprensione, fruizione e interpretazione di una foto sia quello che appare dentro il quadro, che quanto resta per forza di cose fuori dello stesso). Qui, in particolare, il fuori campo parla, è eloquente: perchè non solo la mano che sta per aprire del tutto la porta appare da un "fuori campo" deducibile (la parte a sinistra della porta, dal punto di vista di chi guarda), ma anche perchè quella stessa mano, sotto forma di ombra (pulvis et umbra, sempre), si proietta sullo schermo della parete, aprendo per così dire lo spazio destro della foto stessa, riempiendo di senso (perturbante?) anche il lato destro dell'immagine.

Sinistra (una mano), destra (l'ombra di una mano), centro: una porta socchiusa, dietro della quale s'intuisce la presenza di una stanza; in primo piano, il pavimento di quel corridoio che conduce proprio alla porta che si (sta) per aprire (che qualcuno - ma chi? Un fantasma, un essere umano, uno zombie, un bambino, un uomo o una donna? Un vecchio? - fa il gesto di "aprire"), impedendoci, negandoci, sottraendoci proprio quella porzione di spazio verso cui tenderebbe naturalmente l'occhio (voyeurista) dello spettatore. La porta: fermiamoci su questo elemento tipico; basilare di ogni architettura domestica (non esistono case senza porte; se sì si chiamano bunker; ma in quel caso vi si penetra attraverso una botola, un passaggio segreto, un buco nella terra; la porta è proprio il punto di passaggio per eccellenza verso la "domesticità": solo se c'è una porta ci sarà pure una casa; si entra nel regno del familiare, anche quando chi vi abita ci risulta sconosciuto; comunque quello sconosciuto considererà sempre la porta d'ingresso come "la chiave che apre le porte del regno domestico"). Dicevo: la porta. E' di forma (ovviamente) rettangolare; ebbene: immettere dentro il quadro di un'immagine fotografica (rettangolare) un oggetto, o una seconda immagine, dalla forma rettangolare non è operazione innocente; al cinema (ma credo anche in fotografia) quest'operazione assume i tratti della figura retorica e si chiama (in francese, guarda un po') recradrage. E' come quando inquadro una televisione in un film: l'effetto è da mise en abyme (guarda un po', anche questo secondo termine tecnico è in francese; che il francese sia fissato su certi fenomeni tipici dell'arte "modernista" o "avanguardista"?). E' come quando un regista in-quadra un quadro famoso; o, ancora meglio, quando mi fa vedere un attore che è posto davanti a un quadro e contempla il quadro con la testa ravvicinata al soggetto del quadro e io assisto a un osservatore che osserva senza sapere di venire osservato da altri da dietro le spalle... Ecco una prima conclusione cui si giunge guardando questa foto: il mistero nasce anche dal fatto che essa si costruisce come recadrage: mette al centro del quadro (in-quadra) un quadro (qui, in realtà, un rettangolo), aprendo la strada (dell'interpretazione) verso uno sfondo, un altro quadro (la stanza) che non si vede. Ciò che intra-vedo da dietro la porta è solo, oltre alla mano "misteriosa" che fa atto d'aprire, una striscia bianca orizzontale lungo la parete spoglia; parte del pavimento in parquet (prosecuzione logica del parquet che si vede in primo piano). E nientre altro (nemmeno un'ombra; anzi: nemmeno l'ombra di un oggetto, una persona, un paesaggio, un quadro, una finestra, nulla). Una porta che apre sul nulla? Un gioco di specchi di cui non capisco il fine e le cause?

Mi piace pensare (ipotizzare anche) che quella mano non è nè frutto di un fotomontaggio nè frutto del caso (ma in una foto il caso e il destino - poteva essere così; deve essere così - si danno la mano), bensì sia proprio la mano di Ralph Gibson, l'artista-autore che ha ideato questa immagine alludendo a qualcosa che potrebbe essere proprio l'atto fotografico così come lo intende Dubois. Un atto misterioso che apre la strada a mondi "altri"; che raggela e congela nell'istante un attimo di tempo e una porzione esatta di spazio. Spazio e tempo mummificati e, al contempo, resi eterni dall'effetto della luce sulla pellicola impressionata (le foto fanno sempre impressione, anche quando hanno per oggetto contenuti domestici). Spazi-tempo che l'occhio può percorrere a piacimento ma che restano sempre muti; nessuno verrà a dirci cosa si nasconde dietro quella porta; nessuno sa davvero di chi sia quella mano; e forse non valeva nemmeno la pena porsi questioni simili; la foto è là, fissa, immobile, inquietante. E mi parla senza parole.

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