lunes, mayo 26, 2008





Vergogna, di J. D. Coetzee e L'elenco telefonico di Atlantide, di Tullio Avoledo



Approfitto della pausa semi-estiva prevista per legge dalle lezioni universitarie per riempire le ore libere che mi lasciano i miei alunni con due attività per me fondamentali: le corse in mountain-bike e la lettura.

Il primo libro che ho “divorato” in questi giorni s'intitola Vergogna (Torino, Einaudi, 2000; tit. originale: “Disgrace”, 234 pp.) ed è del Premio Nobel del 2003 J. D. Coetzee. Non conoscevo questo scrittore afroamericano e Vergogna è il primo romanzo che mi capita di leggere, tra quelli che ha pubblicato fino a oggi.

David Lurie è un docente che insegna Letteratura Inglese all'Università. Sogna di scrivere un'opera lirica che racconti con l'aiuto della musica l'ultima fase della vita avventurosa di Lord Byron, quando questi si trova a Ravenna e accende di passione irrefrenabile la bella Teresa Guiccioli, moglie del suo amico italiano. Potremmo considerare David Lurie una sorta di “versione parodica” del famoso poeta romantico: nei primi capitoli ci viene narrata la sua placida vita di cinquantenne che, con due matrimoni falliti alle spalle e per soddisfare le voglie sessuali, ricorre a una prostituta piacevole e simpatica che si fa chiamare Soraya. Nei capitoli seguenti, invece, ci viene presentato quando scoppia improvvisa la passione per una sua studentessa, di circa trent'anni più giovane di lui., e la sua vita subisce una specie di scossa sismica.
Come reagisce il mondo a una simile relazione? Con lo scandalo e l'indignazione. L'Università caccia il vecchio lascivo; anzi, lo obbliga a partecipare a una sorta di processo in cui David dovrebbe ammettere le proprie colpe e pentirsi pubblicamente. E' questo il nodo tematico del romanzo: Vergogna ci parla di che cos'è diventata oggi la “morale”; di come è impossibile distinguere il bene dal male se il metro di giudizio è stabilito a priori da una corte di individui che si considerano migliori degli altri; di che cosa voglia dire realmente pentirsi (o provare vergogna). Vergogna ci parla della difficoltà di scegliersi una vita al di là della morale e dei valori che la società (troppo spesso surrettiziamente) ci impone (inutile rimarcare la radice dostoevskiana di un simile romanzo).

Per sbarcare il lunario e dopo essere caduto in disgrazia, David fa un viaggio a ritroso nel tempo: va a visitare sua figlia Lucy in quella che dovrebbe essere la sua fattoria personale. Lucy ha rifiutato le norme sociali: lesbica e convivente con una donna più grande di lei, accetta che Petrus, un africano suo vicino di casa, si impossessi della sua terra in cambio di protezione contro gli sbandati e i razziatori della zona. Lucy non capisce più il padre, non solo per il distacco generazionale, ma anche e soprattutto perché lui la considera ancora una bambina, e un personaggio secondario in quel romanzo “centrale” e “importante” che è la sua vita (Lucy gli risponderà che “siamo tutti personaggi centrali e importanti nelle nostre vite” - come darle torto).

David prova a capire quali meccanismi guidino il comportamento di Lucy e a un certo punto si mette al servizio di Bev Shaw, una sorta di veterinaria che aiuta i cani malati a morire, iniettando loro del veleno con una siringa. Le pagine dedicate alle descrizioni delle varie malattie degli animali sono terribili, nella loro scarna efficacia e nel loro duro realismo. Vergogna è anche questo: una rappresentazione icastica del mondo contemporaneo come apocalisse. I primi a morire sono loro, gli animali, soprattutto i cani, che ci amano incondizionatamente, senza volere nulla in cambio. L'inceneritore brucia le loro ossa e le riduce in cenere. Cosa possiamo fare per contrastare questa catastrofe quotidiana? Come fermare l'apocalisse? Sono queste alcune delle domande (anch'esse di stampo morale) che ci invita a porci l'autore con questo libro scritto con una prosa semplicemente perfetta nella sua apparente (e falsa) semplicità.

Ben diverso è il discorso su L'elenco telefonico di Atlantide, di Tullio Avoledo (Torino, Einaudi, 2003, 500 pp.). Qui i problemi morali ci sono, ma restano sullo sfondo. Ciò che conta è la trama, sviluppata con piglio energico e con grande senso dell'avventura (e del colpo di scena ottocentesco). Non è una caso se lo stesso autore confessa (in un'intervista reperibile su internet) che Salgari è stato uno degli autori che più lo hanno influenzato nella sua esperienza di lettore (prima) e di scrittore (poi).

Al centro della serie degli eventi a volte assurdi, altre grotteschi che formano il plot c'è Giulio Rovedo (inutile dire che foneticamente il nome del protagonista riprende quello dell'autore in carne ed ossa), un giovane che lavora in banca come responsabile legale. La vita quotidiana del dipendente bancario sembra l'anticamera dell'inferno per gli atteggiamenti che minano i rapporti umani tra dipendenti e superiori, oltre che tra dipendenti e familiari. Ovunque regna l'ipocrisia e la corruzione; l'arrivismo e l'egoismo sono l'unica vera moneta di scambio. In un quadro così triste, una cena dal cinese in compagnia dei vecchi amici sembra un evento eccezionale. E' in corrispondenza di questo capitolo (l'VIII), che Giulio scherza e ride coi vecchi compagni di liceo giocando a quello che loro definiscono “il Bartezzaghi”. In sintesi: si sceglie una definizione arbitraria per permettere all'avversario d'indovinare il termine esatto cui ci si sta riferendo con giochi di parole a volte davvero divertenti (in genere, il titolo di un film o di un romanzo famoso). Esempio: “scena muta all'esame di geometria: I solidi ignoti”; oppure: “speculazione edilizia: Rasa Howard”. Uno degli amici si lamenta del cibo: e l'altro, come fosse Groucho Marx: “i pignoli finiscono negli involtini”.

A un certo punto, Giulio finisce immischiato nella mega-fusione che porta la sua piccola banca a ridimensionamenti drastici e a licenziamenti in tronco; Bancalleanza, che è il gruppo che comanda su tutte le piccole filiali, lo vuole spedire a Milano. Un incontro sul treno, però, cambia le carte in tavola. Non sto qui a raccontare in quale modo strampalato Bancalleanza diventa una specie di consorteria massonica che va in cerca dell'Arca dell'Alleanza di origine biblica. Né posso qui spiegare come nel Nobile (il condominio in cui vive temporaneamente Giulio, dopo una crisi con sua moglie e un tradimento a sorpresa con la responsabile delle risorse umane), si scopre una fonte sacra la cui acqua sembra fare letteralmente i miracoli. Il punto è che la narrazione scorre velocemente verso un finale quasi-apocalittico ma molto più artificiale e artificioso di quello evocato da J. D. Coetzee nel romanzo succitato. Una volta lessi un saggio di Carla Benedetti dal titolo: Pasolini contro Calvino; lì si prefigurava la contrapposizione tra due stili che sono anche (inevitabilmente) due modi diversi di intendere la letteratura e la vita (oltre che il ruolo dello scrittore nei confronti della vita). Se Pasolini è lo scrittore “impegnato”, allora Calvino è lo scrittore “giocoso” o "ludico", che tratta l'intera Storia della Letteratura come “enciclopedia aperta” e sempre ricomponibile a piacere e ad libitum. La scrittura pasoliniana si sporca degli elementi del reale, quando quella calviniana tenta di offrirci eleganti arabeschi postmoderni del mondo (appunto) postmoderno in cui siamo sommersi e di cui formiamo parte.
Se dovessimo allora catalogare Avoledo in una di queste due “scritture”, non avrei dubbi: rientra in quella più sopra allusa come “calviniana”. Ciò non toglie che L'elenco telefonico di Atlantide intrattenga offrendo spunti di riflessione e squarci lucidi sullo “sporco” che caratterizza certi paesaggi.

Venezia, Milano, e una non ben definita e futuristica “Pista Prima” (o era "Prima Pista"?) sono gli scenari in cui si muove questo povero cristo alle prese con una banca vampira che succhia il denaro dei suoi clienti e prova a dominare le menti dei più; alla fine, nella “Coda” finale, scopriamo che tutto è già successo: ovvero, che c'è già stata una terza guerra mondiale; che Milano (insieme al Sud Italia) è stato percorso da tumulti razziali terribili nel 2027 (come non avvertire il tono profetico di questo brano leggendo i giornali di oggi? Il romanzo è stato pubblicato nel 2003 – Alemanno non era ancora sindaco di Roma, i rom non erano stati attaccati a Napoli da gente forse stufa delle loro baracche, forse spinta a gesti estremi su consiglio o sotto l'influenza della Camorra); le grosse multinazionali sono riuscite a catturare le immagini della nostra mente e i nostri ricordi vitali grazie a dei programmi che, racchiudendo tutto in microchip minuscoli, permettono al giocatore di “rivedere” e “rivivere” l'avventura della persona deceduta. Non sorprende allora scoprire come nella finalissima pagina dei ringraziamenti Avoledo ringrazi proprio Sir Arthur C. Clarke (l'inventore del romanzo 2001: A Space Odissey, da cui Kubrick trasse il famoso film). Anzi, dall'intervista che ho citato sopra da internet si capisce che Avoledo condivide con Rovedo una passione tutta letteraria: anche lui, come il suo protagonista romanzesco, intrattiene una corrispondenza fitta con i suoi autori preferiti. Tra questi, il famoso autore di opere di fantascienza.

Se questo è quanto ci aspetta nel futuro, allora non possiamo non dirci “stressati”. Uno crede che la morte sia la fine di tutto o l'ingresso in un mondo altro, in un mondo eterno in cui potrà gioire dei piacere paradisiaci di cui ci racconta anche Dante (tra gli altri) e invece scopre che la nostra anima potrà finire incapsulata in un microchip che verrà utilizzato come “sceneggiatura primaria” per rimontare il film della nostra vita a uso e consumo di spettatori futuri... Un quadro apocalittico anche questo, ma a mio parere un po' meno “angoscioso” e meno “profondo” di quello disegnato da Coetzee in Vergogna. Se lì uno degli "ipotesti" centrali è Dostoevski, qui è Martin Mystère, accompagnato da tanto cinema e da tanta letteratura "distopica" e "di genere"...

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