jueves, octubre 13, 2011

La vita agra, di Luciano Bianciardi: il lato oscuro del “miracolo italiano”



Scritto a Milano l'inverno del 1961, pubblicato l'anno dopo, La vita agra di Luciano Bianciardi è un romanzo che ci permette (ancora oggi) di vedere il dietro le quinte del cosiddetto “boom economico” o “miracolo italiano” degli anni 60. L'autore, nato a Grosseto, ed emigrato al Nord (come tanti suoi concittadini e tanti italiani del Sud), ci mostra un'umanità che si affanna, si svena, si affatica per trovare un lavoro, guadagnare il giusto e, soprattutto per spendere e consumare quanto guadagnato; il lavoro non solo come fattore alienante o strumento che piega l'essere umano ai suoi tic e alle idiosincrasie di un'intera società (capitalista e rampante), ma anche come elemento quotidiano che quotidianamente ci rende tutti come dei robot senza cervello o come barbari pronti ad uccidere il prossimo, a calpestarlo, violentarlo e sfruttarlo in nome del Dio Denaro.

Memorabili le scenette grottesche in cui il narratore in prima persona ci racconta della sua esperienza a contatto con le “segretarie” (senza culo e senza curve, dalle guance incavate e lo sguardo prosciugato), con il mondo dei pendolari che si recano sul posto di lavoro in tram (sembrano tutti zombie o “morti viventi” senza occhi per guardare la realtà circostante); con il mondo degli editori e dei traduttori (“lei deve essere fedele al testo, non può tradire, non deve inventare” - cito al volo e non verbatim); con quello a tratti lirico, a tratti strampalato, degli artisti bohémienne (fotografi che, insieme al protagonista, fanno la fame o tirano a campare in camere in affitto dove fa freddo e l'acqua calda è quasi un lusso; pittori che non hanno l'ispirazione per superare o eguagliare almeno i modelli del passato - “Picasso è bravo”, “Monet è bravo”, “Manet è bravo pure lui”, etc. etc.) e, infine, con il mondo della Milano dell'epoca – la mattina è il momento peggiore, è quando tutti devono passare a chiedere soldi a tutti: i soldi dell'affitto, ma anche quelli della luce, del gas, del condominio, della nuova aspirapolvere tutta da provare, etc. etc.

Ecco allora che la morte, dinanzi a tali scocciature e a tanti problemi, diventa quasi la soluzione perfetta, il porto cui approdare quanto prima:

Ed è per questo che il viso dell'agonizzante ci si mostra sempre così terreo e stravolto: sta lottando, non contro la morte, ma contro la vita, perché pensa e si arrabatta di trovare i soldi per pagare il prossimo. Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora – così par che dica – arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio. Pagateli voi, i conti, e non i vostri soltanto, ma anche i miei, per la cassa, il trasporto, la buca del cimitero. E sorride.” (p. 149)



E' un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, dello stile diretto, apparentemente colloquiale e, in realtà, strategicamente costruito, di Luciano Bianciardi: La vita agra, di fatto, è un romanzo dotato di uno stile proprio; non è soltanto una cronaca, o non vuole essere soltanto questo: è anche una storia emblematica, una narrazione vertiginosa intorno al “male di vivere”, un'esplorazione intorno all'abisso, per mostrarci fin dove può arrivare l'essere umano e quanto dolore può arrivare a sopportare. Narratore e lettore sono coinvolti entrambi, e insieme, in questa ricognizione del limite (o dei limiti umani), come è ben messo in evidenza in questo secondo brano (ennesimo esempio di come Bianciardi concepisse il suo romanzo come “romanzo” e non come semplice “cronaca” o “ritratto di società” o “di costume” - discorso a parte meriterebbe la storia d'amore con Anna, che lo porterà ad allontanarsi dalla moglie lasciata al Sud con un figlio con problemi di crescita...):



Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati dell'esercito, insomma interi” (p. 27).



La “narrativa inegrale”: è da tanto che non mi capitava di leggere un libro così potente, che spinge a riflettere, emoziona e colpisce così forte da spingere il lettore a rimuginare e a ripensare a quanto appena letto...

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