martes, octubre 25, 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino: un film irrisolto


Premessa: non svelerò il finale di un film che, non sempre coerente o costante nei suoi risultati artistici, mi è comunque piaciuto – anche per il suo finale spiazzante o poco prevedibile (forse inverosimile?).
This must be the place, come Il divo e come Le conseguenze dell’amore, rispecchia alla perfezione alcuni dei temi centrali del cinema di Paolo Sorrentino: la solitudine come condizione esistenziale di alcuni essere umani che fuggono (dalla legge, dalla realtà, dal contatto con il prossimo – sto pensando anche al protagonista dell’unico romanzo scritto, ad oggi, dal regista, quell' Hanno tutti ragione, in cui un cantante melodico di successo si ritrova a vivere una seconda vita nel “buen retiro” di un villaggio tempestato dagli scarafaggi in mezzo all’Amazzonia; ma penso anche al Giulio Andreotti nervoso e insonne che cammina, anzi, corre quasi spasmodicamente da una stanza all’altra del proprio appartamento perché preda di ansia, o incubi, o cattiva coscienza del film succitato); la ricerca della verità dietro i veli delle apparenze (ancora una volta, il dialogo “impossibile” tra Andreotti e Moro è un esempio calzante); il presentarsi improvviso e inaspettato dell’occasione che può cambiare per sempre il senso di una vita… E con quest’ultimo tema mi avvicino all’ultimo lavoro di Sorrentino: un’ex-rockstar degli anni 80 (superbamente interpretata dal – come sempre – bravissimo Sean Penn, con tanto di chioma indomabile che tanto ricorda il cantante dei The Cure) riceve una telefonata che lo poterà lontano da casa e dalla moglie: suo padre sta morendo, deve lasciare l’Irlanda per tornare in America e portare l’estremo saluto.
Ora, bisogna dire una cosa: se la prima parte del film, quella meno “cinematografica” o “romanzesca”, è estremamente interessante per il modo in cui il regista riesce a creare un personaggio così sui generis con poche inquadrature perfette, con dialoghi essenziali e precisi, con una musica che rende la colonna sonora un tocco di bravura e di sensibilità sopraffina, la seconda parte, invece, quella che avrebbe potuto far sbizzarrire il regista, risulta meno ricca di pathos o di suspense o di “azione”; Sean Penn vaga per un’America che ricorda molto da vicino quella che abbiamo già visto in Paris, Texas  di Wim Wenders e, invece che andare alla ricerca di Natassja Kinski, segue le orme del criminale nazista che ha umiliato il padre fino a spingerlo a una sete di vendetta che non si è mai placata, nemmeno in procinto della morte.
Sean Penn incontra personaggi uno più strambo dell’altro; si limita ad ascoltare, eppure, anche lui cambia a contatto con gente del genere. Quando poi scopre dove vive il nazista (ormai ultraottantenne), il film subisce un’altra svolta, di cui però, come detto sopra, non dirò.
L’impressione è che Sorrentino abbia voluto dire tante cose e tutte insieme; che si sia divertito molto a girare in America con grandi mezzi (un budget milionario) e un grandissimo attore come Sean Penn; che sia riuscito a infondere ritmo e poesia alle immagini, ma non come c’era riuscito negli altri suoi precedenti film. Che, insomma, qualcosa stona, in un film in cui la musica diventa importante tanto quanto i personaggi che vengono messi al centro di questa storia di “scoperta di sé” e “vendette rimandate all’infinito”.
E’ come se il regista non riuscisse a seguire fino in fondo il percorso di ricerca che avvia il suo anti-eroe strambo e strampalato… e, quindi, come se un po’ anche lui si perdesse dietro i vaneggiamenti, le ironie, le prese di posizione sarcastiche o perennemente anti-conformiste del protagonista.
Qualche emozione, qualche brivido, lo trasmette (come nella scena in cui il figlio della cameriera chiede al vecchio cantante di suonargli “This must be the place”, il pezzo dei Talking Heads che dà titolo al film)… ma manca l’orchestrazione compatta, coinvolgente, avvolgente de Il divo o L’amico di famiglia o L'uomo in più o Le conseguenze dell’amore.

P.S.: la scena in cui David Byrne, leader dei Talking Heads, canta lo stesso brano, beh, quella sì che rimane impressa nella mente dello spettatore (anche per la soluzione scenografica adottata).

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