CINE-FILIE
La cinefilia è una passione strana e stramba ed estrema; il
cinefilo è un essere anomalo, uno che vede nei film anche quello che il regista
non ha mai e poi mai immaginato di riflettervi (o inquadrarvi). Il cinefilo di
razza è chi riesce a mettere a soqquadro il quadro cinematografico, al fine di
squadrarlo fino dove l’occhio umano può arrivare…
Io non sono (e non mi reputo) un cinefilo, però sono amante
del cinema di qualità, di quello che “dà da pensare” (non solo di quello
puramente “spettacolare”). Il massimo è quando un film che è “spettacolare” dà
anche molto da pensare…
E allora uno si fissa, si ossessiona, si concentra su
dettagli apparentemente banali, o sciocchi, o stupidi, o secondari… ad una
prima visione.
Prendiamo i fari della navicella in questa inquadratura
tratta da 2001: A Space Odyssey
(1968) di Stanley Kubrick (uno dei miei registi preferiti):
Si vede chiaramente che si tratta di “effetti speciali”
(nemmeno poi così tanto “speciali”, in questo caso particolare). Eppure, colpisce
la luce che emettono questi due piccoli fari, come se la navicella fosse
un’automobilina messa lì, a vagare nello spazio (stellare) senza meta (o senza
freni). Questa è un’inquadratura perturbante perché ci mostra – come voleva
Freud – la “non-familiarità” di un oggetto che dovrebbe risultarci “familiare”:
i fanali delle auto, qui applicati al cofano di un’astronave in miniatura
dotata perfino di piccoli ganci per afferrare (cosa? Non si sa, per ora…). I
fari illuminano come nella notte buia, solo che qui il buio è spaziale,
intervallato dalla luce che emettono le stelle (e gli altri pianeti – la Luna e
la Terra, che qui non si vedono, sono fuori dall’inquadratura). Chi, invece,
risalta per i suoi colori e per il fatto d’essere ben visibile è l’omino con la
tuta gialla, uno dei poveri astronauti che, nell’impari lotta contro HAL 9000,
finisce – per sempre – fuori strada e si perde letteralmente nello spazio… E
allora, guardando bene le braccia meccaniche della mini-astronave uno realizza
subito che è l’uomo l’oggetto che non si è riusciti ad afferrare… è l’essere
umano che ha perso la strada e il compagno che si trova all’interno dell’
“auto” non potrà più salvarlo e riacciuffarlo… E’ come se Kubrick ci mostrasse
la vanità e la vacuità dell’uomo in quanto “scienziato”: puoi pure riuscire ad
atterrare su Giove; puoi perfino organizzare viaggi spaziali sulla Luna; ma le
tue macchine (cfr. il braccio meccanico dell’astronave più grande che si vede
sul lato sinistro dell’inquadratura) non riusciranno mai a dominare il Cosmo;
tu uomo sei solo un piccolo essere che viaggia nello spazio con i fari accesi,
ma la luce è fioca, in confronto al resto… quei fari, quei piccoli fanali, non
illuminano che poche decine di metri, nel buio stellato dello spazio infinito...
Dalla fantascienza kubrickiana passiamo alla Storia recente,
la Guerra del Vietnam… Quando guardo attentamente quest’inquadratura, tratta da
uno dei miei film preferiti (se non IL preferito in assoluto), e cioè, Apocalyspe Now (1979) di Francis Ford
Coppola, mi domando subito: ma quanta umidità, quanto caldo asfissiante avranno
patito tutte quelle comparse, per questa che è la scena che segna l’inizio
della fine?
Ciò che più colpisce l’occhio dello spettatore, in
quest’inquadratura – oltre al numero cospicuo di comparse – è il mix dei
colori: dal grigio del fumo (il napalm che gli americani usano a profusione per
fare maggiori danni tra le fila dei vietcong) all’azzurro smorto (o verde
opaco) dell’acqua del fiume (che porta il capitano Wilard al cospetto del folle
Kurtz), dal verde degli alberi e delle palme, al rosso dei fuochi accesi… E’
l’Inferno (dantesco), viene subito da pensare, davanti a quei due leoni, quelle
due enormi statue che sembrano essere disposte a difesa di un regno in cui
prevale la violenza e la follia, il sangue e la morte (cfr. il corpo appeso
dell’indigeno in alto a destra – solo uno dei tanti cadaveri che i soldati
americani guidati da Wilard incontreranno lungo il camino – e di qui a poco c’è
la scena o campo medio in cui Wilard scopre che la collina a lui di fronte è
cosparsa di teste di indigeni o con la testa mozzata o con il corpo conficcato
nel terreno…). Emana umidità e caldo, mosche e odore di morte, un’inquadratura
come questa… e anche sproporzione tra: la piccolezza della barca su cui viaggiano
Wilard & co. e la maestosità del luogo difeso a spada tratta da tutte
quelle persone (poco dopo lo spettatore scoprirà con stupore che, tra quei
“selvaggi” c’è anche un “civile” americano, il folle foto-reporter impersonato
da Dennis Hopper). La nave appare come una piccola barchetta pronta a finire in
mano a quell’esercito di selvaggi, qui armati non di semplici archi e frecce,
ma di mitragliatrici e fucili (le stesse armi dei marines americani).
E a proposito di “umidità”: guardiamo questa terza immagine,
tratta da Antichrist (2009) del folle
Lars von Trier (tra i registi più sperimentali e discontinui – in merito ai
risultati – degli ultimi anni):
L’inquadratura ci mostra il primo piano della bravissima
protagonista femminile, Charlotte Gainsbourg, mentre si fa una doccia: ciò che colpisce, però,
è che l’acqua sembra provenire dall’interno del corpo della donna o sembra
colpirla da dietro o da davanti, un getto anomalo, come si può dimostrare anche
nell’inquadratura successiva, questa:
Un’inquadratura di una sensualità assoluta, in cui si vede
anche il compagno della donna, quel Willem Dafoe preda di allucinazioni assurde
e che si spinge a torturare la compagna e ad auto-flagellarsi per espiare non
si sa bene quali gravissimi peccati… Ora, al di là dell’inverosimiglianza o
meno della sceneggiatura, colpisce comunque la capacità che ha il regista
(anche solo in questo paio d’inquadrature) di trasmetterci l’idea del
“sovrannaturale”: il getto d’acqua è anomalo perché sembra scrosciare sui due attori
in modo surreale, dal basso, più che dall’alto, o dai lati… E poi c’è l’idea
dell’amore romantico (e, perciò, anche “estremo”): la faccia che fa Charlotte Gainsbourg è
eloquente perché ci ricorda che chi ama davvero si sfigura, diventa un altro,
assume tratti “nuovi”; e quando i due sono insieme, e stanno facendo sesso, la
trasfigurazione o trasformazione è di entrambi (con una smorfia che, più che di
goduria, sembra di dolore – quello stesso dolore – autodistruttivo – che il
film s’impegna a mostrarci a volte fino ad arrivare al disgustoso, o al
disturbante).
Dai fanali di Kubrick all’atmosfera umidiccia di Coppola
siamo arrivati all’acqua scrosciante e “sovrannaturale” di von Trier. C’è
un’ultima inquadratura che mi colpisce, ultimamente, ed è questa:
Si tratta de L’année dernière à Marienbad (1961) di Alain Resnais, uno dei film “cult” della
rivoluzione della cosiddetta “nuova onda” o nouvelle
vague del cinema francese di quegli anni. Come tutti (o quasi) i film di
questa generazione (di registi e critici letterari – non dimentichiamocelo mai:
i vari Truffaut, Godard, Rohmer, prima che registi furono critici e studiosi –
o storici – del cinema) anche questo capolavoro parla di cinema, è un film sul
cinema e, quindi, per traslato, sul “vedere” (su che cosa significa “guardare”
la realtà). Si tratta di una specie di mise
en abyme, ovvero, e in termine tecnico, di un classico esempio di recadrage: l’inquadratura è composta da
un quadro all’interno di un altro quadro, qui, lo specchio che, sulla destra
dell’immagine, inquadra la donna che cammina presumibilmente verso l’uomo che
guarda la donna inquadrata dallo specchio… Come nel famoso quadro Las meninas di Velázquez, lo specchio
crea un “gioco degli sguardi” in cui lo sguardo stesso dello spettatore viene
subito coinvolto e invischiato, come in una ragnatela di punti di vista e
prospettive ambigue o distorcenti… Chi guarda chi? La prima risposta sembra
logica (e l’abbiamo già data): l’uomo guarda la donna che avanza verso di lui;
in realtà, quest’inquadratura ci suggerisce una seconda risposta: noi
spettatori guardiamo l’uomo che guarda la donna proprio grazie allo specchio
che si frappone tra i due; e lo specchio diventa subito il segnale di una
realtà che l’apparenza non riesce a nascondere: questi due esseri umani sono
separati e distanti tra di loro non solo e non tanto fisicamente, quanto
sentimentalmente. E questo lo si capisce non solo seguendo la “trama”
(totalmente disgregata all’interno del film), ma anche concependo lo specchio
come un elemento che riflette la distanza tra i due (cfr. anche lo sguardo
alquanto cupo o preoccupato della donna che avanza). Insomma: lo specchio ci
dice – implicitamente – che questi due non si amano più o hanno appena smesso
di amarsi… La donna potrebbe fermarsi o uscire di scena (sia dallo specchio sia
da una porta, quella che s’intravede – con tanto di maniglia – dal lato
sinistro dello specchio stesso)…
La cinefilia a volte ti porta a guardare cose che prima non
avresti mai notato… è una specie di mania, o di visione maniacale, di mono-mania, o osservazione assurda dei 26 fotogrammi al secondo che vengono proiettati sullo schermo.
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