La
Recherche in quanto ragnatela (o
cattedrale a pezzi o vestito rattoppato): Gilles Deleuze e il suo Marcel Proust e i segni
Sono pochi i saggi di critica letteraria scritti
bene, con un loro ben individuabile stile, e in grado di aprire nuovi
orizzonti, di avvicinarci a una data opera o all’opera omnia di un dato autore e permetterci di guardarlo e di leggerlo
con occhi “nuovi”, con “nuove lenti” (la metafora oculistica della lente e
degli occhi, del telescopio e del microscopio essendo particolarmente cara – in
questo specialissimo caso – sia all’autore del saggio, Gilles Deleuze, sia all’autore
oggetto di studio, Marcel Proust).
Ebbene, il filosofo “postmoderno” Deleuze riesce
in questa duplice impresa (scrivere bene e farci comprendere meglio e con nuovo
sguardo la materia delle sue indagini) con il suo Marcel Proust e i segni (la prima edizione uscì nel 1964 – e se si
riflette sulla data, sembra impressionante quanta voglia ci sia, da parte del
filosofo, di superare lo strutturalismo nascente di quegli anni con una visione
globalizzante che riesca a fare a meno di tutti quegli schemi e schemini,
diagrammi ed equazioni tanto tipici della critica pronta a salire alla ribalta
di lì a pochi mesi… [le citazioni le traggo dall’ed. italiana, Torino, Einaudi,
1986]).
Chi ha letto la
Recherche e ama Proust potrebbe anche non trovarsi del tutto d’accordo con
le intepretazioni globali dell’opera proposte dall’autore; ma credo che nessuno
potrà sottrarsi facilmente al fascino che esercitano queste stesse
interpretazioni; anche perché, questo va detto e sottolineato con l’evidenziatore:
Gilles Deleuze è convincente, quando vuole
dimostrare una sua teoria. E tu ti senti di dargli ragione, di appoggiarlo e
sottoscrivere ogni sua parola, quando teorizza ciò che lui è riuscito a vedere
all’interno di quel mare magnum che è
la Recherche…
Primo mito che Deleuze sfata: all’interno del
capolavoro proustiano, non è la memoria (volontaria o involontaria che sia) ad
avere il ruolo di protagonista, bensì la ricerca: la Recherche mette in scena (a volte in modo cinico, altre in modo
quasi umoristico, più spesso con tono malinconico) le disavventure della
conoscenza di uno scrittore in potenza che non sa o non riesce di primo acchito
a “tradurre” la realtà esterna che lo interessa e lo attira. Marcel ha in mente
diversi progetti artistici, ma non sa bene da dove e come cominciare. Marcel ha l’occhio
acuto per “leggere” attraverso i corpi delle persone che frequenta, sa "leggerne" l'anima, ma deve “perdere”
un sacco di tempo, prima di arrivare a conoscerle davvero. Marcel s’innamora e
si dispera per amore, ma deve passarne di cotte e di crude prima di arrivare a
dedurre alcune “leggi universali” legate ai sentimenti umani quali l’amore (o l’odio,
l’invidia, la gelosia, la sete di vendetta – cfr. La
prigioniera, enciclopedia sintetica e affascinante dei principali “peccati”
di Marcel).
E poi c’è la storia dell’unità dell’opera: non esiste,
non c’è, quando Proust comincia a scrivere; l’unità della Recherche è un’unità parziale e totalmente in fieri; anche in questo caso lo scrittore erige la sua cattedrale
ben consapevole del fatto che: a) può crollare da un momento all’altro; b) i
materiali che la compongono (i vari capitoli, i vari libri, i vari personaggi e
le molteplici digressioni, riflessioni, aneddoti, riferimenti alla realtà
contemporanea, trame e sottotrame, etc.) non possono non essere che eterogenei; c) gli diventa
perciò quasi impossibile costruire a
posteriori una teoria del romanzo di forma compiuta (cfr. tutte le
riflessioni di Deleuze sull’opera d’arte in quanto “macchina” per produrre
emozioni nel lettore, e in quanto “dispositivo” che genera nuove visioni – e più
leggo Deleuze e più intuisco che solo uno che ha scritto due saggi sul cinema
come Immagine-tempo e Immagine-movimento poteva permettersi il
lusso di ragionare su Proust in questi termini…).
Dalla metafora della “cattedrale”, dunque, o da quella
del “vestito”, si passa a quella della “cattedrale a pezzi” e del “vestito
fatto di rammendi”: Proust in quanto scrittore non-programmatico, ma che si
lascia attirare dalle mille (e una notte) di spunti, emozioni, ricordi, appunti
sparsi e digressioni varie che gli provengono dai due “côtés” e che mette in
moto una macchina che sembra non fermarsi mai e di fronte a nulla… Fino ad
arrivare alla metafora della “ragnatela”: la Recherche come organismo che si fa nel tempo, che riflette sul
tempo, che cerca di catturare le verità estraibili o intuibili dal tempo,
inglobando tutto ciò che attira la “ricerca” a-sistematica e a-filosofica del
narratore-protagonista…
Concludo: non ricordo bene se fu proprio Francesco
Orlando (altro sottilissimo ed acuto lettore della Recherche) a consigliarmi questo saggio di Deleuze; non ricordo
bene se fu lui a dire che Marcel Proust e
i segni era uno dei pochi tentativi riusciti di “analisi globale” e non
banale della Recherche; sta di fatto
che, a lettura terminata, non posso non essere d’accordo con Orlando; e non si
può non essere d’accordo con Deleuze, quando, come nella citazione che ricopio
qui sotto, ti dice tante “verità” nello spazio ristretto di una paginetta:
“L’essenziale nella Ricerca non è la memoria e il
tempo, ma il segno e la verità. L’essenziale non è ricordare, ma apprendere. La
memoria infatti non vale se non come una facoltà capace d’interpretare certi
segni, il tempo non vale se non come la materia o il tipo di questa o di quella
verità. E il ricordo, ora volontario ora involontario, interviene soltanto in
momenti precisi dell’apprendimento, per contrarne l’effetto o per aprire una
nuova via. Le nozioni della Ricerca sono: il segno, il senso, l’essenza; la
continuità degli apprendimenti e la subitaneità delle rivelazioni. Riconoscere
in Charlus un omosessuale, è cosa che sbalordisce. Ma occorreva la maturazione
progressiva e continua dell’interprete; e poi il salto qualitativo in un nuovo
sapere, un nuovo campo di segni. I Leitmotive
della Ricerca sono: non sapevo ancora, dovevo capire in seguito; ed anche: non
m’interessavo più appena cessavo d’apprendere. I personaggi della Ricerca non
hanno importanza se non in quanto emettono segni da decifrare, sopra un ritmo
del tempo più o meno profondo. La nonna, Françoise, la signora di Guermantes,
Charlus, Albertine: ognuno di essi vale solo per quello che apprendiamo da lui”
(id., pp. 84-85).
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