Istanbul
“Viaggiare, perdere paesi”, scriveva in qualche
suo racconto Enrique Vila-Matas, citando (forse) il portoghese (e cittadino del
mondo) Fernando Pessoa… Viaggiare, perdere paesi, conoscere gente nuova,
entrare a contatto con nuove culture, lingue diverse dalla tua (la lingua
madre, perché “appresa” come s’impara a succhiare il latte dal seno materno),
tradizioni a te sconosciute, angoli di strade e tramonti sul mare mai visti
prima…
Viaggiare per me è fondamentale: non più soltanto
una piacevole abitudine o una sorta di routine legata al lavoro che faccio (quest’anno,
ad es., per partecipare alle varie conferenze, ho potuto viaggiare da Bruxelles
– e scoprire il Belgio – a Coimbra e Lisboa – e vedere per la prima volta il
Portogallo; da Madrid – l’amata seconda patria – a Trento – che, pur essendo
Italia, era una città che non avevo mai visitato prima), ma anche una
necessità, una specie di bisogno fisiologico, quando sto troppo tempo fermo o
troppo tempo in Italia, il paese complicato cui appartengo, volente o nolente…
E così, mentre prendevo l’areo per Istanbul (il
mio primo viaggio in Turchia), sottolineavo le prime righe de Gli accampati di Silverado, un libro
semi-sconosciuto di Robert Louis Stenvenson (tradotto in italiano da Attilio
Brilli per Studio Tesi), un libro strano e che sembra scritto da una sorta di
Herny James con il pallino per i viaggi nei
posti più esotici e desolati della Terra, un libro che si apre con la seguente
epigrafe:
Devi renderti conto che sarò un nomade fino alla
fine dei miei giorni. Non sai quanto l’abbia desiderato ai vecchi tempi, quando
correvo a vedere i treni in partenza e agognavo andarmene con loro. Ora sai che
devi considerare come parte integrante di me questa propensione alla vita
errabonda. Sarò sempre un girovago
E’ Stevenson, proprio lui, l’autore del
famosissimo Dr. Jeckill and Mr. Hyde,
dell’ultranota The Treasure Island, a
parlare, rivolgendosi per lettera a sua madre.
E mentre passo dal lato orientale della città
(Anatolia) al lato occidentale (Europa), e attraverso il Bosforo con il
traghetto, penso anch’io: “Sarò sempre un girovago”, anche quando non avrò
tanti soldi per girare (allora, viaggerò con la mente – sono proprio un
“sentimentale”, stasera…).
Istanbul è una città bellissima, popolata da 18
milioni di persone, ricca di colori, profumi, sapori e… macchine. Traffico a
ogni ora del giorno e della notte, Istanbul non dorme mai (come New York); la
gente prende il tè come noi il caffè, ogni occasione è quella buona… La gente è
giovane (non sospettavo che la capitale fosse così giovane e giovanile) e tutti
si divertono: a Istanbul il lungomare è pieno di alberi per ripararsi dal sole
cocente e di parchi con i campi da baskett; Istanbul vive e si muove con te, di
giorno e di notte, come un animale smanioso che non trova pace.
Mi domando se Stevenson sia mai arrivato a
visitare la Turchia, lui che è andato a fare il viaggio di nozze a Silverado,
nella California del vecchio west, tra capanne diroccate di minatori ormai
morti e gran canyons spaventosi, prima di finire i suoi giorni nell’isola di
Samoa… Avrebbe di sicuro apprezzato i traghetti che solcano il Bosforo, i tanti
minareti contornati dagli altoparlanti usati dai muezzin per la preghiera (e
richiamare all’ascolto i fedeli) cinque volte al giorno, con cadenza
matematica; e avrebbe di certo apprezzato la Moschea Blu e Santa Sofia (che
prima di diventare moschea era basilica romana), i venditori ambulanti e i
venditori di castagne (in pieno Giugno e con una temperatura che supera i 35
gradi centigradi all’ombra); sarebbe di certo rimasto colpito – come me – dalle
donne musulmane che indossano il velo e da quelle più “estremiste” che girano
per strada vestite di nero e col burka – una striscia di stoffa bucherellata
all’altezza degli occhi per non inciampare o cadere; e si sarebbe chiesto,
forse – come mi sono chiesto io – se queste due giovani studentesse col velo
colorato che mi stanno sedute di fianco sul minibus hanno anche il profilo su
Facebook, visto che sono tanto svelte ad usare i loro cellulari ultramoderni
per mandare email e scambiarsi messaggi istantenei con le loro amiche e
ascoltare che musica (che tipo di musica ascolteranno?).
Istanbul è una città in perenne movimento e che,
allo stesso tempo, invoglia alla sosta, alla pausa, alla contemplazione: invita
a prestare attenzione alle varie moschee; ai tramonti sul mare; alla gente che
prende il tè e fuma, con calma e senza fretta, con il sorriso sulle labbra e la
voglia di chiacchierare, nonostante il traffico, il caos, i rumori.
Come sarebbe stato il libro di Stevenson che sto
sottolineando a matita accanto a un gatto che si è venuto a sedere accanto a
me, in questo bar affacciato sul mare, se, invece che a Silverado, si fosse
accampato qui, a Istanbul… la città dei kebab, del dürüm, delle spremute
d’arancia più buone e succose che abbia mai bevuto in vita mia; la città del
ponte di Brooklin sul Bosforo; la città delle ragazze col velo colorato e di
quelle che vestono alla moda e fumano Marlboro rosse e hanno tatuaggi vistosi
sui polpacci e le braccia e che sembrano volersi mangiare il mondo…
VIENE VOGLIA DI ANDARE A ISTANBUL...
ResponderEliminarMe alegro Si!Vale davvrp la pena farci un giro..
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