miércoles, junio 20, 2012


Istanbul



“Viaggiare, perdere paesi”, scriveva in qualche suo racconto Enrique Vila-Matas, citando (forse) il portoghese (e cittadino del mondo) Fernando Pessoa… Viaggiare, perdere paesi, conoscere gente nuova, entrare a contatto con nuove culture, lingue diverse dalla tua (la lingua madre, perché “appresa” come s’impara a succhiare il latte dal seno materno), tradizioni a te sconosciute, angoli di strade e tramonti sul mare mai visti prima…

Viaggiare per me è fondamentale: non più soltanto una piacevole abitudine o una sorta di routine legata al lavoro che faccio (quest’anno, ad es., per partecipare alle varie conferenze, ho potuto viaggiare da Bruxelles – e scoprire il Belgio – a Coimbra e Lisboa – e vedere per la prima volta il Portogallo; da Madrid – l’amata seconda patria – a Trento – che, pur essendo Italia, era una città che non avevo mai visitato prima), ma anche una necessità, una specie di bisogno fisiologico, quando sto troppo tempo fermo o troppo tempo in Italia, il paese complicato cui appartengo, volente o nolente…

E così, mentre prendevo l’areo per Istanbul (il mio primo viaggio in Turchia), sottolineavo le prime righe de Gli accampati di Silverado, un libro semi-sconosciuto di Robert Louis Stenvenson (tradotto in italiano da Attilio Brilli per Studio Tesi), un libro strano e che sembra scritto da una sorta di Herny James con il pallino per i viaggi  nei posti più esotici e desolati della Terra, un libro che si apre con la seguente epigrafe:


Devi renderti conto che sarò un nomade fino alla fine dei miei giorni. Non sai quanto l’abbia desiderato ai vecchi tempi, quando correvo a vedere i treni in partenza e agognavo andarmene con loro. Ora sai che devi considerare come parte integrante di me questa propensione alla vita errabonda. Sarò sempre un girovago


E’ Stevenson, proprio lui, l’autore del famosissimo Dr. Jeckill and Mr. Hyde, dell’ultranota The Treasure Island, a parlare, rivolgendosi per lettera a sua madre.
E mentre passo dal lato orientale della città (Anatolia) al lato occidentale (Europa), e attraverso il Bosforo con il traghetto, penso anch’io: “Sarò sempre un girovago”, anche quando non avrò tanti soldi per girare (allora, viaggerò con la mente – sono proprio un “sentimentale”, stasera…).

Istanbul è una città bellissima, popolata da 18 milioni di persone, ricca di colori, profumi, sapori e… macchine. Traffico a ogni ora del giorno e della notte, Istanbul non dorme mai (come New York); la gente prende il tè come noi il caffè, ogni occasione è quella buona… La gente è giovane (non sospettavo che la capitale fosse così giovane e giovanile) e tutti si divertono: a Istanbul il lungomare è pieno di alberi per ripararsi dal sole cocente e di parchi con i campi da baskett; Istanbul vive e si muove con te, di giorno e di notte, come un animale smanioso che non trova pace.

Mi domando se Stevenson sia mai arrivato a visitare la Turchia, lui che è andato a fare il viaggio di nozze a Silverado, nella California del vecchio west, tra capanne diroccate di minatori ormai morti e gran canyons spaventosi, prima di finire i suoi giorni nell’isola di Samoa… Avrebbe di sicuro apprezzato i traghetti che solcano il Bosforo, i tanti minareti contornati dagli altoparlanti usati dai muezzin per la preghiera (e richiamare all’ascolto i fedeli) cinque volte al giorno, con cadenza matematica; e avrebbe di certo apprezzato la Moschea Blu e Santa Sofia (che prima di diventare moschea era basilica romana), i venditori ambulanti e i venditori di castagne (in pieno Giugno e con una temperatura che supera i 35 gradi centigradi all’ombra); sarebbe di certo rimasto colpito – come me – dalle donne musulmane che indossano il velo e da quelle più “estremiste” che girano per strada vestite di nero e col burka – una striscia di stoffa bucherellata all’altezza degli occhi per non inciampare o cadere; e si sarebbe chiesto, forse – come mi sono chiesto io – se queste due giovani studentesse col velo colorato che mi stanno sedute di fianco sul minibus hanno anche il profilo su Facebook, visto che sono tanto svelte ad usare i loro cellulari ultramoderni per mandare email e scambiarsi messaggi istantenei con le loro amiche e ascoltare che musica (che tipo di musica ascolteranno?).



Istanbul è una città in perenne movimento e che, allo stesso tempo, invoglia alla sosta, alla pausa, alla contemplazione: invita a prestare attenzione alle varie moschee; ai tramonti sul mare; alla gente che prende il tè e fuma, con calma e senza fretta, con il sorriso sulle labbra e la voglia di chiacchierare, nonostante il traffico, il caos, i rumori.
Come sarebbe stato il libro di Stevenson che sto sottolineando a matita accanto a un gatto che si è venuto a sedere accanto a me, in questo bar affacciato sul mare, se, invece che a Silverado, si fosse accampato qui, a Istanbul… la città dei kebab, del dürüm, delle spremute d’arancia più buone e succose che abbia mai bevuto in vita mia; la città del ponte di Brooklin sul Bosforo; la città delle ragazze col velo colorato e di quelle che vestono alla moda e fumano Marlboro rosse e hanno tatuaggi vistosi sui polpacci e le braccia e che sembrano volersi mangiare il mondo…

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