FONDAMENTALE
FONDAMENTA DEGLI INCURABILI, DI IOSIF
BRODSKIJ
Che libro fantastico, che lettura impressionante, che ritmo
avvolgente, che stile lirico, che opera geniale è questo piccolo, ma densissimo
testo del russo Iosif Brodskij, Fondamenta
degli incurabili (Milano, Adelphi, 1991 – scritto nel 1989 e rivisto e
ampliato per l’ed. italiana)!
Erano anni che non mi capitava di leggere un’opera di
questo spessore e di cotale tenore; forse è il miglior libro che abbia letto
negli ultimi 10 anni… E proprio per questo mi è quasi impossibile (o è molto
complicato) per me dire le ragioni di questo primato, spiegare
(soggettivamente) perché questo è un libro per me fondamentale…
Fondamenta
degli incurabili è un libro sul viaggiare: chi narra è l’io
dell’autore, uno scrittore russo che insegna all’Università in America e
risiede a New York, ma che, appena può, fugge in Italia, a Venezia, la città
che lo ha stregato fin dal primo incontro.
Ed è anche un libro sull’amore: quello di questo scrittore
“esiliato” (o perennemente “nomade”) con la città lagunare e quello che sembra
affiorare tra le pagine dell’opera (in
progress – metà romanzo, metà autobiografia e, in alcuni brani, saggio
sull’arte non solo veneta e non solo italiana) ogni qualvolta chi narra si
riferisce a una donna con gli occhi “senape-e-miele” chiamata “la visione” o
anche l’“unica-persona-che-conoscevo-in-tutta-la-città”…
Ed è anche un libro sulla scrittura e sui rapporti che
questa, inevitabilmente, intrattiene sia con il tempo sia con il ricordo (e la
memoria del passato). Il lettore è qui convocato a partecipare al viaggio che
la mente e l’occhio dell’autore fanno all’interno di due labirinti: quello
fisico di Venezia (con le sue mille calli e canali e chiese e musei e piazze
nascoste e facciate orientaleggianti) e quello mentale di chi narra e ricorda e
riflette, con ironia, intelligenza, apparente distacco, evidente partecipazione
emotiva…
Ci sono pagine, all’interno di Fondamenta degli incurabili, che sembrano pura poesia; e altre,
invece, che suonano come un pezzo di filosofia alla Walter Benjamin (o alla
Ludwig Wittgenstein), cioè: filosofia “a sprazzi”, fatta di frammenti, piccole
illuminazioni che accendono una scintilla nella mente del lettore e lo fanno
volare alto, lontano dalla terra ferma, verso l’infinito (e oltre), come in un
film di fantascienza…
Ecco, è questa commistione di “amore” (inteso come
“passione” irrefrenabile, quasi auto-distruttiva, verso qualcosa o qualcuno) e
di “riflessione” (intesa come “desiderio di scavo interiore” a partire dalla
contemplazione attenta e osservazione ingegnosa di spazi fisici reali o di
oggetti quotidiani perfino banali – le mura di una casa fredda durante
l’inverno, i comignoli dei camini, le finestre da cui s’intravede il lusso di
chi vi abita, la nebbia che tutto confonde, i vestiti acquistati senza motivo)
a creare quello strano periodare di Brodskij, quel suo affascinante modo di
accumulare frasi e immagini, parole e suoni…
D’altronde, Brodskij è chiaro, sin dalle prime pagine, in
merito al suo scopo (o tentativo letterario) e noi non possiamo non essere
felici per un programma del genere:
“Io non sono un essere morale (anche se tento di tenere la
mia coscienza in pareggio) o un saggio; non sono un esteta né un filosofo. Sono
soltanto un uomo nervoso […]. Come ha detto una volta il mio amato
Akutagawa Riunosuke, non ho principi; tutto quello che ho sono nervi. Le pagine
che seguono, quindi, hanno a che fare con l’occhio piuttosto che con
qualche convinzione, comprese quelle sul modo di gestire un racconto. Avendo
rischiato l’accusa di depravazione, non batterò ciglio a quella di
superficialità. Le superfici – cioè la prima cosa che l’occhio registra –
sono spesso più eloquenti del loro contenuto, che è provvisorio per
definizione, tranne, si capisce, nella vita dopo la vita” (id., p. 22,
sottolineature mie).
Un gran libro, una lettura affascinante, uno sguardo su chi
siamo, questo fondamentale Fondamenta
degli incurabili.
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