martes, diciembre 10, 2013

Androidi e umani (ancora su Ma gli androidi sognano pecore elettriche?)



Stamattina l’ho finito e la prima cosa che ho pensato è stata la seguente: “Ma dove diavolo è finito il famoso monologo finale di Roy Baty, quell’androide impersonato al cinema da Rutger Hauer? Quello più feroce e, al contempo, più filosofico del grupo degli androidi cui da la caccia Rick Deckard? Quel monologo che comincia con la famosa frase (entrata ormai nell’immaginario collettivo – la sanno tutti, anche quelli che non hanno mai visto Blade Runner): ‘Io ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni d’Orione’…” e finisce con la frase dal tono shakespeariano: ‘È tempo di morire’”? Risposta: “Non c’è, Philip Dick non ha mai scritto quel monologo, dunque, deve essere per forza di cose frutto del regista Ridley Scott – e dei suoi sceneggiatori –, non c’è altra spiegazione”.

E qui ti viene da pensare come, a volte, il regista sia davvero bravo non solo a trasferire in immagini i contenuti di un romanzo (operazione per niente facile né scontata), ma anche a ricrearne lo stesso spirito, perché – è evidente a chiunque abbia letto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – quelle frasi, in quel monologo, sono perfette se messe in bocca a uno come Roy Baty, sono lo specchio dei suoi ragionamenti straniati e l’occasione perfetta per riflettere su cosa pensano le macchine (create dall’uomo), se davvero arriveranno un giorno a pensare (pensiero oscuro e che mette i brividi).

E poi c’è la scena di sesso (nel film mai esplicita) tra il cacciatore di taglie e l’androide donna: Rick finisce a letto con Rachael sapendo che così sta trasgredendo la legge, non bisogna mai “mischiarsi” con le macchine, si rischia di confondere le parti in gioco… È una scena davvero bella, anche perché sviluppata tutta per ellissi. Rick accetta di cedere alla tentazione, ben sapendo che in quel modo sta tradendo sia sua moglie sia il codice morale della società post-bellica in cui è costretto a vivere…

“Amore è solo un altro nome del sesso”, dice Rachael (o Rick, ora non ricordo più bene), e forse ha ragione.

Questo spiegherebbe anche la gelosia dell’androide quando, tornato a casa, Rick trova sua moglie sconvolta sul terrazzo. Rick aveva comprato da poco una capra (anche questa elettrica) e Rachael – ingelosita e quasi per vendetta – si introduce in casa e spinge giù l’animale dall’ultimo piano, davanti agli occhi terrorizzati della moglie di Rick.

Ecco un altro aspetto affascinante e perturbante del romanzo: la San Francisco che riproduce Phil Dick (San Francisco, non Los Angeles, come scrivevo nel post precedente) è una città devastata dalla polvere radioattiva, dove le scorie, gli scarti, i rifiuti occupano la scena principale. Eppure, anche in queste condizioni, l’essere umano tenta di sopravvivere, di lottare, di diffondere la vita.

In tal senso, la voglia di allevare animali è il simbolo (e il sintomo) di un’umanità che ancora ha delle speranze. Peccato che questi animali siano (spesso) riproduzioni perfette, ma artificiali, degli animali veri.

Ecco allora l’importanza della scena finale: Rick, esausto dopo la caccia agli androidi, trova per caso quello che sembra l’ultimo rospo rimasto sulla Terra e lo raccoglie con grande emozione e tatto, lo custodisce all’interno di una scatola e lo porta in trofeo da sua moglie. Quel rospo è considerato ormai un animale in via d’estinzione. Rick vi scorge la fonte di una vita vera che ancora pulsa. Peccato che poi sua moglie lo disilluderà per l’ennesima volta.


Philip Dick ci spinge a riflettere su cos’è che ci rende davvero umani anche attraverso un animale così semplice, quotidiano e banale come un rospo… E questo fa del suo romanzo un libro degno d’essere letto (anche se poi non vi ritroviamo il monologo che al cinema ci ha fatto emozionare tanto, quel monologo che termina con le parole: “E tutti questi momento andranno perduti per sempre… È tempo di morire...”).

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