Androidi e umani
(ancora su Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?)
Stamattina l’ho finito e la prima cosa
che ho pensato è stata la seguente: “Ma dove diavolo è finito il famoso monologo
finale di Roy Baty, quell’androide impersonato al cinema da Rutger Hauer? Quello
più feroce e, al contempo, più filosofico del grupo degli androidi cui da la caccia
Rick Deckard? Quel monologo che comincia con la famosa frase (entrata ormai
nell’immaginario collettivo – la sanno tutti, anche quelli che non hanno
mai visto Blade Runner): ‘Io ho visto
cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, navi da combattimento in
fiamme al largo dei bastioni d’Orione’…” e finisce con la frase dal tono
shakespeariano: ‘È tempo di morire’”? Risposta: “Non c’è, Philip Dick non ha
mai scritto quel monologo, dunque, deve essere per forza di cose frutto del
regista Ridley Scott – e dei suoi sceneggiatori –, non c’è altra spiegazione”.
E qui ti viene da pensare come, a volte,
il regista sia davvero bravo non solo a trasferire in immagini i contenuti di
un romanzo (operazione per niente facile né scontata), ma anche a ricrearne lo
stesso spirito, perché – è evidente a chiunque abbia letto Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – quelle frasi, in quel
monologo, sono perfette se messe in bocca a uno come Roy Baty, sono lo specchio
dei suoi ragionamenti straniati e l’occasione perfetta per riflettere su cosa
pensano le macchine (create dall’uomo), se davvero arriveranno un giorno a pensare (pensiero oscuro e che mette i brividi).
E poi c’è la scena di sesso (nel film
mai esplicita) tra il cacciatore di taglie e l’androide donna: Rick finisce a
letto con Rachael sapendo che così sta trasgredendo la legge, non bisogna mai “mischiarsi”
con le macchine, si rischia di confondere le parti in gioco… È una scena
davvero bella, anche perché sviluppata tutta per ellissi. Rick accetta di cedere
alla tentazione, ben sapendo che in quel modo sta tradendo sia sua moglie sia
il codice morale della società post-bellica in cui è costretto a vivere…
“Amore è solo un altro nome del sesso”,
dice Rachael (o Rick, ora non ricordo più bene), e forse ha ragione.
Questo spiegherebbe anche la gelosia
dell’androide quando, tornato a casa, Rick trova sua moglie sconvolta sul
terrazzo. Rick aveva comprato da poco una capra (anche questa elettrica) e
Rachael – ingelosita e quasi per vendetta – si introduce in casa e spinge giù l’animale
dall’ultimo piano, davanti agli occhi terrorizzati della moglie di Rick.
Ecco un altro aspetto affascinante e
perturbante del romanzo: la San Francisco che riproduce Phil Dick (San Francisco,
non Los Angeles, come scrivevo nel post precedente) è una città devastata dalla
polvere radioattiva, dove le scorie, gli scarti, i rifiuti occupano la scena
principale. Eppure, anche in queste condizioni, l’essere umano tenta di
sopravvivere, di lottare, di diffondere la vita.
In tal senso, la voglia di allevare
animali è il simbolo (e il sintomo) di un’umanità che ancora ha delle speranze.
Peccato che questi animali siano (spesso) riproduzioni perfette, ma artificiali, degli animali veri.
Ecco allora l’importanza della scena
finale: Rick, esausto dopo la caccia agli androidi, trova per caso quello che
sembra l’ultimo rospo rimasto sulla Terra e lo raccoglie con grande emozione e
tatto, lo custodisce all’interno di una scatola e lo porta in trofeo da sua
moglie. Quel rospo è considerato ormai un animale in via d’estinzione. Rick vi
scorge la fonte di una vita vera che ancora pulsa. Peccato che poi sua moglie
lo disilluderà per l’ennesima volta.
Philip Dick ci spinge a riflettere su
cos’è che ci rende davvero umani anche attraverso un animale così semplice,
quotidiano e banale come un rospo… E questo fa del suo romanzo un libro degno d’essere
letto (anche se poi non vi ritroviamo il monologo che al cinema ci ha fatto
emozionare tanto, quel monologo che termina con le parole: “E tutti questi momento
andranno perduti per sempre… È tempo di morire...”).
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