Incubi
Incubi.
Mi affascinano gli incubi. Non a caso sono un fan di un fumetto dell’orrore
come Dylan Dog (che, di mestiere,
come tutti sanno, fa “l’indagatore dell’incubo” – ciò non toglie che, a volte,
gli incubi facciano tremendamente paura anche a lui). Ultimamente, però, ne
faccio troppi e troppo strambi, incubi atroci o sogni grotteschi che poi mi
fanno stare male tutto il giorno, mi riducono a uno zombie, mi fanno camminare
a passo lento e spento, mi spingono a riflettere su temi scottanti come la
Morte, la Paura, il Suicidio, l’Eutanasia, la Violenza, l’Apocalisse, la
Perdita Improvvisa dell’Identità… Insomma, temi che non ti lasciano respirare
sereno e tranquillo.
L’altro
aspetto inquietante è che questi incubi si ripetono: a volte con piccole
variazioni, altre con aggiunte che vengono dalla notte precedente, altre ancora
con cambi di ruoli e di personaggi basati su persone che conosco nel piano
della realtà.
In uno
di questi incubi ricorrenti faccio l’amore con la mia ex. Il set cambia
velocemente: da Firenze, passiamo a Roma (una stanza d’hotel di lusso), poi al
ridente paesello sui monti abruzzesi in cui sono nato (un prato fiorito in un
bosco), infine a Salerno (il vecchio attico – o mansarda – in cui ho vissuto
per un anno e mezzo). All’improvviso, entra in camera un essere mostruoso, una specie
di oca gigantesca (o struzzo o papero) che mi afferra per la gola e tenta di
cavarmi gli occhi con il becco.
In un
altro incubo, invece, vengo rapito da un macellaio, un tipo all’apparenza
bonario, con barba e pochi capelli sulla testa. In perfetto stile Hostel, il macellaio mi immobilizza su
una sedia metallica con manette e corde strette e mi impianta dei bottoni sui
polsi, facendomi sanguinare fino allo svenimento (questa scena mi ricorda,
inevitabilmente, quella biblica di Gesù appeso sulla croce: sento ancora il
fastidioso rumore della carne che si rompe sotto i colpi dei chiodi sul palmo
delle mani).
Nell’incubo
più recente, invece, cammino da solo per strada in una Roma stranamente deserta.
M’inerpico su Via delle Quattro Fontane, sbuco su Via Nazionale, decido di andare
fino a Largo Argentina per prendere il 64 e arrivare fino a San Pietro, quando,
sempre senza previo avviso, dal cielo luminoso della capitale iniziano a cadere
pezzi di metallo acuminati e ruote giganti. Ci vuole un minuto per capire che
sono pezzi e ruote d’aereo. Dal cielo piovono aerei che vanno a schiantarsi sui
monumenti più famosi e sui palazzi più alti (in perfetto stile “11 Settembre”).
Il rumore degli schianti fa venire i brividi. Non so come riesco a non urlare e
chiamo mio fratello da una cabina telefonica (solo nei sogni esistono ancora
questi attrezzi ormai estinti per colpa dei cellulari) e lui mi conferma che
anche a La Habana stanno piovendo aerei dal cielo. La cosa più brutta di tutte
è sentire il rumore da Formula 1 prodotto dalle ruote giganti che ti sfiorano
le orecchie (o il corpo). Basta poco e si viene ridotti in poltiglia (come succede
a qualche sventurato pedone che attraversa la strada prima di me).
C’ho
riflettuto a lungo e alla fine ho capito che, almeno quest’ultimo incubo,
deriva, in parte, dalla visione (recente) di uno dei film sugli zombie più
originali che abbia mai visto negli ultimi vent’anni, e cioè, da Juan de los muertos (2011) di Alejandro
Brugués, uno dei primi film di zombie ambientato a Cuba (ecco perché parlo per telefono
con mio fratello da La Habana).
Provo a
riflettere anche sugli altri 2 o a mettere in relazione tutti e 3 gli incubi
con le mie esperienze degli ultimi mesi e…non trovo un filo comune…
Una cosa
sì è certa: i protagonisti a volte cambiano faccia (il macellaio può benissimo
diventare il padre della mia ex, ovvero, il mio ex-suocero; il papero gigante può trasformarsi in uno dei miei
più cari prof dei tempi dell’Università; la telefonata posso farla tranquillamente
a Mosca, invece che a Cuba; etc. etc.), la paura che provocano questi incubi
resta la stessa (anzi, a volte aumenta: perché quando s’apre il set, intuisco e
capisco già cosa m’aspetta, so già in quale incubo sono finito).
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