martes, marzo 18, 2014

Quel mostro di Montaigne



“Non ho visto portento né prodigio al mondo più evidente di me stesso. Ci si abitua ad ogni stranezza con la consuetudine e col tempo. Ma più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce. Meno mi capisco”

Queste le parole (dirette, sincere, spassionate, sorprendenti e universalmente condivisibili) di un signore francese vissuto nel XVI sec. e impegnato nell’ardua impresa socratica di riuscire a “conoscere se stesso”… Montaigne si rintanò nella proverbiale “torre d’avorio” proprio per questo, per frequentarsi e conoscersi meglio. Non sapeva che, così facendo, stava dando vita a un genere letterario, quello del “saggio”, che avrebbe poi avuto una fortuna secolare e che, ancora oggi, ci serve per porci domande e sollevare dubbi senza fine (o senza un fine prestabilito e univoco) sui temi più vari e disparati.

La scienza pretende di trovare la risposta a ogni fenomeno empirico; la filosofia, invece, pretende di scuotere gli animi in nome del dubbio costante, della critica spietata contro l’evidenza (anche contro se stessi), della domanda che non si accontenta di trovare risposte preconcepite o scontate (o esposte in un linguaggio di tipo scientifico-matematico).

Nell’originale, in realtà, Montaigne non dice esattamente così,  la prima parte del ragionamento, la prima frase, recita così:

“Je n’ai vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”

E le cose, evidentemente, cambiano: in italiano “portento” o “prodigio” suonano auliche, nobili, sono termini quasi “poetici”; nella sua lingua materna, invece, Montaigne voleva sottolineare proprio questo, l’eccezionalità, l’abnormità e l’anormalità del suo essere in quanto “essere umano pensante” e, per questo, parla di “monstre” e “miracle”: un mostro o un miracolo, qualcosa che ci sorprende perché sfugge alle definizioni normali di ciò che è “normale” e “quotidiano” o che ci lascia a bocca aperta perché tocca la sfera del “sacro”, il “miracolo” come “evento inspiegabile” o che la ragione non può concepire e spiegare in base alle leggi della non contraddizione o dell’identità.

L’uomo come “mostro” o come “miracolo”: quanti film – nel corso della storia del cinema – sono nati proprio a partire da questa concezione alla Montaigne? Quanti primi piani non hanno tentato di mostrare il “mostro” che è dentro di noi, il “miracolo” che possiamo essere per un altro essere umano?

E mi vegono subito in mente i primi piani di Ingmar Bergman (non a caso, un altro connazionale di Montaigne, e cioè, Gilles Deleuze, affermava che il regista svedese si è spinto come nessun’altro verso la contemplazione del volto umano, trasformando i “primi piani” sui suoi attori in una figura retorica che si sgancia dalla trama del film per “narrare” un altro film, sotterraneo, anarchico, ingovernabile – e François Truffaut fa eco a Deleuze, quando dice: “Il volto umano. Non c’è nessuno che gli si avvicini tanto quanto Bergman”), o le scene più efferate dei vari “mostri” che popolano il nostro immaginario collettivo (pensiamo ai film di Dario Argento – in cui di solito del “mostro” vediamo sempre e solo la mano, almeno all’inizio – o a quell’Hannibal Lecter che Jonathan Demme è riuscito egregiamente a tradurre per immagini a partire dal famoso romanzo – dal titolo piuttosto biblico The Silence of The Lamb – di Thomas Harris – e a proposito di primi piani, non esiste spettatore al mondo – credo – che non provi terrore nel contemplare da vicino la “mostruosità” che trasmette il protagonista, cannibale e sensibile, mix esplosivo di brutalità primitiva e di buone maniere da aristocratico, perfettamente incarnato da quel “mostro” di bravura che è Anthony Hopkins).

Ma anche la pittura è piena (è fatta) di esseri umani mostruosi o portentosi (pensiamo al Grido di Munch o alla Primavera di Botticelli, tanto per fare due esempi banali); e così la letteratura (pensiamo al Grande Inquisitore che Dostoevskij s’inventa ne I fratelli Karamazov, o a Molly Bloom, un “miracolo” di donna adultera e sensibile e romantica e ironica cui nessun lettore dell’Ulysses può sottrarsi, per il fascino che trasmette, per l’umanità che incarna, per quel suo “sì” ripetuto tre volte alla fine del suo torrenziale monologo).

Ma ciò che più colpisce della riflessione di Montaigne è un altro aspetto: la temporalità. 

Più passa il tempo a frequentarsi e a tentare di conoscersi, meno capisce se stesso (addio, Socrate). Il fattore “tempo” è centrale. Montaigne ci sta dicendo apertamente che non è affatto vero che “il tempo aggiusta le cose” o che “il tempo ci rende più saggi” o “più maturi” o “più esperti”, anzi… 

Montaigne ci dice che succede esattamente il contrario: accumuliamo anni, esperienze e rughe sulla pelle, senza riuscire a venire a capo di quasi nulla. Più si invecchia e, quindi, più ci si avvicina al traguardo finale (la morte) e più ci si sorprende di quanto poco c’insegna la vita (o l’esperienza in generale). E questo pensiero è spietatamente realista, se ci riflettiamo bene, e pessimista, e direi quasi fatalista. La relazione tra gli anni che passano (o che fuggono via a grandi passi) e la capacità di comprensione dell’essere umano è una relazione inversamente proporzionale e di fronte a questo non ci sono santi, né Cristi, né divinità varie che possano consolarci… Montaigne ci da il quadro (cupo) della situazione. Prendere o lasciare, non ci sono opzioni.

Eppure… il lettore si rende conto che - andando avanti nella lettura degli Essais -, l’autore non scrive tanto per rattristarci o per contaminarci dei suoi dubbi, quanto per cercare di esorcizzare le verità che va scoprendo nel corso della sua missione: “conosci te stesso” (perché “io stesso sono l’argomento di questo libro”).

E uno non può non sentirsi avvinto da questa missione, non può non condividere con Montaigne il sapore amaro che, a volte, le sue scoperte ci lasciano in bocca. E soprattutto, non può non fare il tifo per lui, e non può ignorare le verità cui giunge (a partire dal proprio “io”) questo filosofo scettico, che dubita di tutto e che, con stoicismo, accetta ogni dolore, ogni dispiacere, ogni delusione della vita. Ogni verità. Anche quelle che più fanno male o sfiancano o sorprendono.


“Je n’ai vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”… Appunto.

No hay comentarios:

Publicar un comentario

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...