Quel mostro di Montaigne
“Non ho
visto portento né prodigio al mondo più evidente di me stesso. Ci si abitua ad
ogni stranezza con la consuetudine e col tempo. Ma più mi frequento e mi
conosco, più la mia difformità mi stupisce. Meno mi capisco”
Queste le
parole (dirette, sincere, spassionate, sorprendenti e universalmente
condivisibili) di un signore francese vissuto nel XVI sec. e impegnato nell’ardua
impresa socratica di riuscire a “conoscere se stesso”… Montaigne si rintanò
nella proverbiale “torre d’avorio” proprio per questo, per frequentarsi e
conoscersi meglio. Non sapeva che, così facendo, stava dando vita a un genere
letterario, quello del “saggio”, che avrebbe poi avuto una fortuna secolare e
che, ancora oggi, ci serve per porci domande e sollevare dubbi senza fine (o
senza un fine prestabilito e univoco) sui temi più vari e disparati.
La
scienza pretende di trovare la risposta a ogni fenomeno empirico; la filosofia,
invece, pretende di scuotere gli animi in nome del dubbio costante, della
critica spietata contro l’evidenza (anche contro se stessi), della domanda che non si accontenta di
trovare risposte preconcepite o scontate (o esposte in un linguaggio di tipo scientifico-matematico).
Nell’originale,
in realtà, Montaigne non dice esattamente così, la prima parte del ragionamento, la prima
frase, recita così:
“Je n’ai
vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”
E le
cose, evidentemente, cambiano: in italiano “portento” o “prodigio” suonano
auliche, nobili, sono termini quasi “poetici”; nella sua lingua materna,
invece, Montaigne voleva sottolineare proprio questo, l’eccezionalità, l’abnormità
e l’anormalità del suo essere in quanto “essere umano pensante” e, per questo,
parla di “monstre” e “miracle”: un mostro o un miracolo, qualcosa che ci
sorprende perché sfugge alle definizioni normali di ciò che è “normale” e “quotidiano”
o che ci lascia a bocca aperta perché tocca la sfera del “sacro”, il “miracolo”
come “evento inspiegabile” o che la ragione non può concepire e spiegare in
base alle leggi della non contraddizione o dell’identità.
L’uomo
come “mostro” o come “miracolo”: quanti film – nel corso della storia del
cinema – sono nati proprio a partire da questa concezione alla Montaigne?
Quanti primi piani non hanno tentato di mostrare il “mostro” che è dentro di
noi, il “miracolo” che possiamo essere per un altro essere umano?
E mi
vegono subito in mente i primi piani di Ingmar Bergman (non a caso, un altro
connazionale di Montaigne, e cioè, Gilles Deleuze, affermava che il regista
svedese si è spinto come nessun’altro verso la contemplazione del volto umano,
trasformando i “primi piani” sui suoi attori in una figura retorica che si
sgancia dalla trama del film per “narrare” un altro film, sotterraneo, anarchico,
ingovernabile – e François Truffaut fa eco a Deleuze, quando dice: “Il volto umano.
Non c’è nessuno che gli si avvicini tanto quanto Bergman”), o le scene più
efferate dei vari “mostri” che popolano il nostro immaginario collettivo
(pensiamo ai film di Dario Argento – in cui di solito del “mostro” vediamo
sempre e solo la mano, almeno all’inizio – o a quell’Hannibal Lecter che
Jonathan Demme è riuscito egregiamente a tradurre per immagini a partire dal
famoso romanzo – dal titolo piuttosto biblico The Silence of The Lamb
– di Thomas Harris – e a proposito di primi piani, non esiste spettatore al
mondo – credo – che non provi terrore nel contemplare da vicino la “mostruosità”
che trasmette il protagonista, cannibale e sensibile, mix esplosivo di brutalità
primitiva e di buone maniere da aristocratico, perfettamente incarnato da quel “mostro”
di bravura che è Anthony Hopkins).
Ma anche
la pittura è piena (è fatta) di esseri umani mostruosi o portentosi (pensiamo
al Grido di Munch o alla Primavera di Botticelli, tanto per fare
due esempi banali); e così la letteratura (pensiamo al Grande Inquisitore che
Dostoevskij s’inventa ne I fratelli
Karamazov, o a Molly Bloom, un “miracolo” di donna adultera e sensibile e
romantica e ironica cui nessun lettore dell’Ulysses
può sottrarsi, per il fascino che trasmette, per l’umanità che incarna, per
quel suo “sì” ripetuto tre volte alla fine del suo torrenziale monologo).
Ma ciò
che più colpisce della riflessione di Montaigne è un altro aspetto: la
temporalità.
Più passa il tempo a frequentarsi e a tentare di conoscersi, meno
capisce se stesso (addio, Socrate). Il fattore “tempo” è centrale. Montaigne ci sta dicendo
apertamente che non è affatto vero che “il tempo aggiusta le cose” o che “il
tempo ci rende più saggi” o “più maturi” o “più esperti”, anzi…
Montaigne ci
dice che succede esattamente il contrario: accumuliamo anni, esperienze e rughe
sulla pelle, senza riuscire a venire a capo di quasi nulla. Più si invecchia e,
quindi, più ci si avvicina al traguardo finale (la morte) e più ci si sorprende
di quanto poco c’insegna la vita (o l’esperienza in generale). E questo
pensiero è spietatamente realista, se ci riflettiamo bene, e pessimista, e
direi quasi fatalista. La relazione tra gli anni che passano (o che fuggono via
a grandi passi) e la capacità di comprensione dell’essere umano è una relazione
inversamente proporzionale e di fronte a questo non ci sono santi, né Cristi,
né divinità varie che possano consolarci… Montaigne ci da il quadro (cupo)
della situazione. Prendere o lasciare, non ci sono opzioni.
Eppure… il lettore si rende conto che - andando avanti nella lettura degli Essais -, l’autore non scrive tanto per rattristarci o per contaminarci dei suoi dubbi, quanto per cercare di esorcizzare le verità che va scoprendo nel corso della sua missione: “conosci te stesso” (perché “io stesso sono l’argomento di questo libro”).
E uno non
può non sentirsi avvinto da questa missione, non può non condividere con
Montaigne il sapore amaro che, a volte, le sue scoperte ci lasciano in bocca. E
soprattutto, non può non fare il tifo per lui, e non può ignorare le verità cui giunge (a partire dal proprio “io”)
questo filosofo scettico, che dubita di tutto e che, con stoicismo, accetta
ogni dolore, ogni dispiacere, ogni delusione della vita. Ogni verità. Anche
quelle che più fanno male o sfiancano o sorprendono.
“Je n’ai
vu monstre et miracle au monde plus exprès que moi-même”… Appunto.
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