lunes, agosto 27, 2007
In questi giorni, oltre alle letture sacre (vedi sotto), mi son dato alla rilettura dell'ultimo romanzo di Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana (Milano, Bompiani, 2004). Quando lo lessi la prima volta, devo essere sincero, non ne rimasi così entusiasta; ad una seconda lettura, invece, il libro mi prende, la trama mi avvince, il personaggio m'ispira simpatia. La trama assomiglia alla Recherche di Proust; in realtà, potremmo definire il tutto come una sorta di "parodia proustiana" della ricerca del tempo perduto. Il narratore protagonista perde la memoria cosiddetta "episodica" (la serie di episodi che compongono la sua vita) e conserva intatta la memoria cosiddetta "semantica" (ricorda alla perfezione la data della morte di Napoleone, le citazioni da opere di T.S. Eliot, R.L. Stevenson e Pinocchio). Per cercare di recuperare anche la prima, sulla scorta dell'aiuto della seconda, Yambo (così si chiama chi racconta) torna nella casa paterna, affinchè i ricordi riafforino in modo più nitido e diretto (solo così gli si accende la "misteriosa fiamma" cui si riferisce il titolo).
Il libro si auto-presenta come "romanzo illustrato" ed in effetti è pieno di immagini: foto d'epoca, foto di copertine, illustrazioni di dischi degli anni in cui Yambo era un fanciullo (anni 30, inizio anni 40, quando Mussolini comandava l'Italia sotto l'egida del Fascio Littorio) e altro materiale documentaristico. Il fascino del libro sta anche in questo apparato "visivo" che lo stesso narratore-protagonista ci fa vedere e ripercorre avidamente con lo sguardo per tentare una ricostruzione il più possibile obiettiva e veritiera di chi era, di chi è stato e di chi è attualmente.
In tutto il romanzo si respira l'aria delle cose vecchie, della robaccia che confiniamo alla cantina perchè ormai inservibile o passata di moda; c'è aria di antichi costumi ormai in disuso, lampade a olio, camino acceso nell'inverno rigido delle Langhe, le zolle di terra con le viti ancora immature di un'uva che verrà a Settembre, puntuale, pioggia permettendo.
E così, anch'io, come Yambo, mi son ritrovato bambino, quando leggevo E.A. Poe senza capirlo, anche se i suoi racconti devono aver lasciato una traccia indelebile nel mio DNA di lettore; oppure quando, in vacanza, ne approfittavo per leggere Topolino (più tardi sostituito da Dylan Dog, l'unico fumetto che colleziono e leggo ancora oggi, alla veneranda età di 30 anni); e mi domando: ma quali sono stati i libri che mi hanno segnato? Con quali romanzi ho trascorso la mia adolescenza (turbolenta, romantica, estrema, dubbiosa, come ogni adolescenza che si rispetti)?
Mi vengono in mente subito tre titoli: Cent'anni di solitudine, di Gabriel García Márquez (ancora oggi non riesco a capire bene come e quanti membri compongano l'albero genealogico della famiglia Buendía, ma quel romanzo mi ha davvero cambiato la vita, lo lessi in tre giorni, di filato, dopo aver messo da parte i libri di scuola, e aver imparato a leggere la realtà da un'ottica distorta, la scrittura come "creazione di un mondo altro", in cui i personaggi volano, muoiono e risorgono per amore o per vendetta, dove le donne aspettano i mariti, in eterno, dove i generali perdono eternamente le loro guerre personali, dove le ragazze più affascinanti subiscono gli scherzi più amari del destino e finiscono col mangiare la terra o la calce delle mura di casa); e poi c'è Ulysses, di James Joyce, anche se in realtà la lettura integrale e completa venne in secondo tempo, quando ormai avevo 19 anni (la prima cosa che lessi di questo anti-romanzo geniale fu l'ultima parte, il monologo lunghissimo e sconnesso, lirico e assurdo, di Molly Bloom, ero turbato dalle parole che l'autore immagina la sua creatura romanzesca dica in sonno o in sogno, quanti pensieri intrecciati a desideri, quante dichiarazioni di poetica, smentite, amori nascosti, parolacce, intimità violate, ascoltando l'andirivieni a spirale dei pensieri notturni di Molly, la moglie di quel povero disgraziato di Leopold Bloom, uno di noi, ricordo ancora il professore d'Inglese al Liceo, una mattina entrò in aula e scrisse queste due frasi alla lavagna, a caratteri cubitali, parole, per me, all'epoca, piuttosto incomprensibili: "Leopold Bloom siamo noi; J.A. Prufrock siamo noi"); e infine c'è La metamorfosi, di Franz Kafka, non potevo credere a quanto leggevo, Gregor Samsa che si sveglia scarafaggio (o insetto mostruoso non ben identificato, non ricordo bene), un dolore, una pietà assoluta a leggere il rendiconto dettagliato di questo essere rifiutato da tutti, vilipeso, incompreso, isolato anche dai genitori, i quali provano vergogna del suo nuovo stato malaticcio e vorrebbero liquidarlo, cancellarlo per sempre dalla faccia della terra (solo dopo avrei capito tutta la ricchezza semantica della scrittura di Kafka, il suo carattere enigmatico, e intuito che David Cronenberg dovette ispirarsi evidentemente anche a Kafka per creare il suo remake di The Fly - con Jeff Goldblum che perde i pezzi, che va letteralmente in pezzi, in nome della scienza e della scoperta della verità - ma la verità si paga sempre a caro prezzo, lo sa bene anche il protagonista della leggenda inserita nella parte finale de Il processo). Letture d'infanzia e, poi, d'adolescenza, senza le quali, forse, non sarei quello che sono e non saprei dove andare nel labirinto delle tante soffitte o solai che ci attendono (ma Yambo riuscirà mai a trovare l'origine della "misteriosa fiamma" della regina del titolo?). Sono ancora a p. 156, manca ancora un po' per scoprirlo. Meglio così.
miércoles, agosto 22, 2007
Per motivi "que no vienen aquí al caso", mi son armato di curiosità e pazienza e, proprio in questi giorni, ho concluso la lettura dell'Apocalisse, l'ultimo libro della Bibbia (uno dei primi best-seller della letteratura mondiale e di tutti i tempi) e, al contempo, ultima parte del Vangelo secondo Giovanni (anche se ancora oggi, nonostante siano passati tanti secoli e al di là dei numerosissimi e attentissimi studi da parte di critici e teologi, non si è ancora accertato se a scriverla sia stato davvero l'apostolo che risponde - rispondeva? - al nome di "Giovanni", oppure un altro che si spacciava per lui, o uno sconosciuto cristiano improvvisatosi "profeta" annunciatore del futuro che verrà; sono davvero tanti i misteri che suscita una lettura simile; oltre all'autore - o meglio, gli autori - la Bibbia è piena di misteri, di conti che non tornano, di letture trasversali, di interpretazioni allegorico-simbolico-misteriche dalle sfumature più variegate; per un primo approccio a quanto sostengo cfr. Frank Kermode, The Secrecy of Genesis, un piccolo capolavoro di critica letteraria).
Ciò che più mi ha colpito è che l'Apocalisse si sviluppa come un racconto (all'interno del racconto più generale e ampio che copre gli avvenimenti che vanno, appunto, dalla Genesi, fino alla Fine di Tutto e alla discesa del Regno dei Cieli) e che, all'interno di tale racconto, la scena della resurrezione e del conseguente Giudizio Universale di tutti i morti, o meglio, di tutti i vivi che poi sono diventati morti, occupa pochissimo spazio, appena un capitoletto, per l'esattezza il 20 (vv. 11-15).
Anche all'interno di questa micro-struttura l'andamento è narrativo (e sintetico: poche frasette per dire tutto quello che l'apostolo-profeta vede e sente e che, evidentemente, dopo la visione profetica, mette per iscritto, affinchè tutti lo leggano e lo sappiano, ricordiamoci che Giovanni scrive perchè convinto che la Fine è imminente - anche se poi, nel corso dei secoli, sappiamo che non è più così, che, come dice lo stesso Kermode, succitato, la Fine da imminente si è fatta immanente, e ogni secolo, ogni comunità umana, ogni cultura si è "inventata" per così dire la sua Fine Ultima, le sue Apocalissi personali (una delle ultime, che ha colpito l'immaginazione di quanti vivono nella zona occidentale del mondo, risale all'11 Settembre 2001, con riprese in diretta ritrasmesse a livello planteraio dalle tv di mezzo (o intero?) mondo - le due Torri che crollano come fossero di carton gesso, i due aerei che, a distanza di pochi minuti, si schiantano contro le finestre e i muri di cementoarmato); cfr. F. Kermode, The Sense of an Ending [ecco spiegato quell'articolo "indeterminativo" nel titolo: il Senso di "una" Fine, non "della" Fine, ognuno si sceglie il modo migliore per finire o per vedersi finito; in relazione al tema esiste un ampio ventaglio di possibilità; tra queste, quelle presentate da Giovanni non lasciano certo tranquilli e sereni; vedi le cavallette con volto umano che mietono morte e terrore sugli urlanti peccatori perseguitati fin sotto le grotte; la pioggia di sangue e le grandinate improvvise; i terremoti che sconquassano i mari; il cielo che si rabbuia e la luna che diventa rosso sangue; ecc. ecc.]).
Ebbene, dicevo, i passi che parlano del Giorno del Giudizio e della resurrezione finale sono scarni e occupano poco spazio, all'interno dell'intero libro. E seguono anche loro un andamento narrativo; sembra che l'autore adotti la tecnica musicale del crescendo (ciò che in letteratura si chiamerebbe climax, ovvero: partire da un elemento dato, accomunarlo a un altro di maggiore spessore, sovrapporne un terzo, fino ad arrivare al parossismo, all'iperbole, a un'immagine che non può non colpirci):
1-Prima fase: "Allora vidi un gran trono bianco e quegli che vi stava seduto; innanzi al suo sguardo la terra e il cielo scomparvero, e di essi non si trovò più traccia".
Un attacco di grande effetto, non c'è che dire: Giovanni immagina di guardare il trono su cui è seduto l'Innominato (Dio Onnipresente e Onnipotente; ma perchè il trono è proprio di quel colore, bianco?) e poi immagina che col solo sguardo questi faccia sparire terra e cielo. Cosa resta se togliamo il cielo e la terra? Quale paesaggio desolato potrebbe presentarsi a quel punto dinanzi a questo Essere Supremamente Adirato il giorno del Giudizio Finale? Noi, che siamo umani, non potremmo immaginare il nulla; o forse sì, ed il nulla è proprio questo: l'assenza totale di ogni riferimento spaziale, via la terra, via il cielo, resta, forse un nero assoluto (perchè associamo il nulla al nero? Altra questione aperta);
2-Seconda fase: "Vidi anche i morti, i grandi e i piccoli, ritti davanti al trono, e vennero aperti dei libri. E un altro libro venne aperto: il libro della vita."
Qui la cosa curiosa è che Giovanni "guarda con" Dio, è una visione "stereoscopica", fatta in contemporanea con Dio, diciamo pure che, evidentemente, sia Dio che il suo profeta, si trovano alla stessa distanza e alla stessa altezza dal punto da cui vedono (hanno la visione di) quanto succederà quel giorno. Dunque, cosa vede Giovanni, insieme a Dio? I morti, grandi e piccoli... (nota quell' "anche": perchè "anche i morti"? Si riferisce per caso alle altre visioni e al fatto che a quelle si accocia quest'ultima visione, con tutti i morti?). Dicevamo: i morti, grandi e piccoli. E qui forse non si sta riferendo all'età di quei morti (o forse è proprio quella la differenza che sottolinea? La differenza anagrafica: tra i morti anziani e i morti prematuri, i bambini, i neonati? Ma che sfortuna enorme, nascere proprio poche ore o pochi minuti prima del Giorno del Giudizio, no? Che sadismo, da parte di chi lo consente... o sbaglio?), ma anche alla differenza di rango: il giorno della resurrezione "universale" risorgono davvero tutti, sia i poveri che i re, sia i morti di fame che i potenti della terra (la Morte, si sa, livella ogni esistenza). E poi viene il bello: oltre alla schiera (quanto immensa) dei morti, Giovanni dice di vedere dei libri... A quali libri si riferisce? Mi faccio aiutare dal commento del curatore dell'edizione BUR che ho comprato: all'epoca si credeva che esistessero due tipologie di "libro": quello in cui è descritta fin nei minimi dettagli la vita di ognuno di noi; e il "libro della vita", appunto, che Giovanni immagina di vedere aperto subito dopo l'apertura di quegli altri "libri": quest'ultimo è il libro in cui sono scritti i nomi (e descritte le esistenze?) di tutti gli eletti, dei santi, di coloro che, amati dal Signore, sono stati da lui scelti per far parte del suo Regno eterno (e per l'eternità). Dunque, Dio legge in questa doppia fila di libri: nei primi ricapitola le vite di tutti; nel secondo verifica che l'eletto sia davvero tale; che le opere compiute in vita (e descritte nel primo libro) meritino l'elezione certificata (e dettagliata) nel secondo libro, quello della vita. Di fatto, viene la terza fase:
3-Terz fase: "E i morti vennero giudicati in base a quanto stava scritto sui libri, secondo le loro opere".
Ora, immagini il lettore quanto casino possa causare una causa universale, di dimensioni, appunto, "mondiali". Quante lamentele, quanti pianti e dimostrazioni di pentimento, l'ultimo giorno della vita sulla terra; quanti insulti e bestemmie da parte di chi sa già che è condannato (e perciò il suo nome non appare nè mai apparirà sul "Libro della Vita", è già scritto e Dio sa tutto); quanta allegria, invece, e salti di giubilo, da parte dei santi, dci beati, dei misericordiosi, di chi ha fatto del bene, di chi ha fatto sempre buone azioni; quanta incertezza, o paura, o brividi sulla schiena da parte di coloro che effettivamente non sanno, ignorano se le loro sono state davvero "opere buone", se meritano il Regno dei Cieli, se il loro nome appare davvero nel secondo libro aperto; e Dio, da Sommo Giudice, seduto sul trono bianco, che ascolta e passa in rassegna le vite di tutti... Una Biblioteca di Babele, un Universo in espansione verbale, un putiferio, che casino di nomi, date, fatti, un processo generale da portare a conclusione in mezzo a tante anime di defunti arrabbiati, malinconici, preoccupati, felici, scontenti, gioiosi, giubilanti o terrorizzati...
4-Quarta fase: "Il mare poi restituì i morti che in esso riposavano, e la morte e l'ade restituirono i morti in essi; essi vennero giudicati ognuno secondo le opere sue. E la morte e l'ade furono gettati nell'abisso di fuoco; questa, l'abisso di fuoco, è la seconda morte".
La prima domanda è: come fa il mare a restituire i morti, i cadaveri dei naufraghi che in esso persero la vita? Una bassa (o alta) marea? Un'onda anomala tipo tzunami che riversa i corpi nei pressi del trono del Sommo Giudice? Non solo: i morti risorgono dalla morte (personificata) e dall'ade (anche questo, all'epoca, personificazione del luogo in cui opera la morte). E in secondo tempo, il colpo di scena più sconcertante, per un lettore moderno: la morte stessa muore, insieme ad Ade, e finisce nell'abisso di fuoco: l'ultimo giorno, non solo risorgeranno tutti i morti (e i condannati finiranno per sempre nel fuoco), ma morirà la stessa morte; la morte che muore, per lasciare spazio alla felicità e alla beatitudine eterna che regnavano eternamente prima che Adamo ed Eva venissero cacciati dall'Eden... Fa davvero effetto immaginare la morte della Morte (possiamo immaginarcela così come la dipingevano i pittori del Medio Evo: la falce che tanto ha mietuto improvvisamente ridotta ad ammasso di metallo fuso, fonde nel fuoco dell'abisso di fuoco eterno; i quattro stracci sullo scheletro divampati e ridotti immediatamente in brandelli, in cenere, in fumo, in nulla).
5-Quinta fase: "E chi non fu trovato scritto nel libro della vita venne gettato nell'abisso di fuoco".
Una conclusione diabolica, per certi versi; cattivissima e definitiva: evidentemente non serve nemmeno aver operato correttamente e secondo il bene e il buono predicati da Cristo e incarnati da Dio; per salvarsi la pelle occorre essere dentro la lista di quelle vite descritte nel libro della vita; la Provvidenza Divina non fa sconti, mantiene in vigore il libero arbritrio (la libertà di scegliere - di fare il male o il bene), ma non perdona le origini (e allora, dove va a finire il libero arbitrio, se Dio già sa, fin da prima della mia nascita, che la vita descritta nel primo libro, non è contemplata nell'elenco delle vite di quelli che appaiono nel secondo, più cruciale, Libro della vita?). Il libro (dell'Apocalisse) prosegue, descrivendoci quello che succederà una volta che Dio introdurrà il suo Regno per secula seculorum (Satana sconfitto, anche lui, insieme a Morte e Ade, in mezzo al fuoco dell'abisso del fuoco). Ma io smetto di leggere, e chiudo il libro, con in mente l'immagine di questi poveracci che, esclusi dall'altro libro, finisco insieme a Morte, Ade, Satana e altri dannati vari... gettati nelle fiamme, come pezzi di legno o stracci che non servono più a niente, come resti e scarti da dimenticare per sempre...
sábado, agosto 18, 2007
jueves, agosto 16, 2007

L'anno scorso Julieta Venegas rappresentò la colonna sonora della mia estate da studioso di Letterature Straniere Moderne (ricordo ancora con gioia - e riascolto ancora con allegria - il ritornello di Me voy, il pezzo più famoso dell'album Limón y sal - ma anche Mi primer día non è male); quest'anno, semplicemente, non c'è colonna sonora che tenga (o che mi coadiuvi a superare questa noia mortale e questo periodo complicato, lavoro e studio in una Pisa deserta, i turisti scattano la classica foto fingendo di reggere la torre pendente con due mani, mi piacerebbe vedere la faccia che farebbero se la torre, proprio nell'istante dello scatto fotografico, crollasse rovinando strepitosamente a terra, sull'erba e il cemento della famosa Piazza dei Miracoli, sì, quello sì che sarebbe un miracolo, ma alla rovescia...). Però continuo ad ascoltare musica, è ovvio. Ascolto Ligabue, che non mi piace, ma l'ascolto lo stesso quando giro in bici e m'imbatto in questi due versi da L'odore del sesso:
"e ci siamo mischiati la pelle le anime le ossa
ed appena finito ognuno ha ripreso le sue".
Molto icastica come immagine. I due amanti che si mescolano tutto, compreso le ossa, e poi le raccolgono e se ne reimpossessano, ognuno torna "singolo", un "pezzo unico", per così dire, il dolore della separazione, non più "uno+uno", ma "uno" soltanto, separato dall'altro. In questi giorni leggo un romanzo di un autore del cui nome non voglio ricordarmi che parla proprio di questo: i morti che, il Giorno del Giudizio, recupereranno i loro resti mortali; e allora sì, il decapitato rimetterà la testa al proprio posto, sul tronco, e lo squartato proverà a rimettere insieme i pezzi e l'annegato a svuotare i polmoni dalle alghe incagliate nelle interiora... Questi due versi di Ligabue mi fanno pensare alle stesse immagini; con una differenza, però: che qui non si tratta del Giorno del Giudizio, ma della fine di un rapporto amoroso. Una tragedia anche quella, perchè in tal caso i giudici sono due e ognuno è pronto a condannare l'altro (o a lasciarsi condannare) per i motivi più disparati (e più disperati, in genere). Quanto dolore, quante lacrime inutili, quante recriminazioni...
Poi passo a Elisa, ascolto Qualcosa di te, titolo apparentemente banale. M'imbatto in queste parole (che, sia detto per inciso, accompagnate alla musica fanno tutte ovviamente un altro effetto):
"E miracolosamente non
Ho smesso di sognare
E miracolosamente
Non riesco a non sperare
E se c'è un segreto
E' fare tutto come
Se vedessi solo il sole"
Certe volte ci provo, a fare tutto come se vedessi solo il sole. Questa canzone mi riconcilia con la vita. Mi aiuta a sopportarne gli alti e i bassi, i cosiddetti "voltafaccia" della Fortuna. Sarà che sono anche metereopatico (si scrive così?) e quando c'è il sole (quando siamo in estate) mi sento meglio, e più ottimista, o più energico... Elisa e Ligabue hanno duettato in un'altra canzone. Lui l'ha scritta, lei la canta (se non vado errato). S'intitola Gli ostacoli del cuore. Mai titolo fu più azzeccato per inquadrare la situazione del momento. Sono un sentimentale, in fin dei conti...
martes, agosto 14, 2007
Io non sono io,
a volte mi sento strano e vago per la casa
come anima nel limbo
in attesa del Giorno del Giudizio.
E certe volte me lo dici anche tu,
mi rimproveri per la mia passione
malsana per i libri e i viaggi
ultramondani
e le passeggiate in riva alla Senna
(ti ricordi quei giorni
di Luglio, quanta pioggia
in una città piena di turisti e
senza nemmeno un venditore ambulante
a venderci un ombrello
sotto l’arcata centrale
di Nôtre-Dame?).
Piangere a volte fa male alla gola
e non serve a niente
recriminare, rimpiangere,
promettere ammende,
anelare passaggi a stati d’animo
migliori, più adatti al momento,
a questa crisi che non sappiamo più se
è ancora di passaggio,
o è già tutto passato
e io non sono più io,
e nemmeno tu sei più te stessa
e nessuno dei due sa quale
strada prendere e se sarà
ancora la stessa, presa
da entrambi,
con la stessa sagacia,
la stessa pazienza,
un’allegria unanime.
domingo, agosto 12, 2007

viernes, agosto 03, 2007
Se c’è un aspetto che colpisce macroscopicamente nella scrittura di W. G. Sebald (autore austriaco nato nel 1944 in un paesino delle Alpi Bavaresi e morto in un incidente stradale vicino a Norfolk nel 2001) è la presenza costante di immagini inserite nel corpo del testo a riprova del fatto che quanto il narratore dice non è frutto esclusivo della propria fantasia, ma è esistito davvero, ha avuto una sua “presenza empirica” nel mondo reale (o nell’ambito di ciò che, per convenzione linguistica, siamo soliti designare col termine “reale” - anche se quanto leggiamo sembra essere frutto dell'immaginazione più "romanzesca" possibile e immaginabile).
Il primo libro che scoprii per caso di Sebald aveva un titolo strano, che in spagnolo suonava ancora più “raro”: Historia natural de la destrucción, apparso postumo nel 2004, se non erro, riuscì a catturare la mia attenzione che vagava tra saggi di critica letteraria e romanzi horror di serie B. Il libro parlava (o meglio: parla, non è morto, come il suo autore, ahimè) di una pagina nera della Storia Contemporanea della Germania della Seconda Guerra Mondiale: i bombardamenti a tappeto che gli Alleati pianificarono contro i nazisti con lo scopo primordiale di ridurre in ginocchio e alla resa definitiva il nemico. Ricordo ancora una foto in cui si vede una cameriera intenta a lustrare uno specchio appeso a una parete (o era una finestra?), unica porzione superstite di una casa completamente rasa al suolo. E’ difficile riprodurre o spiegare il pathos che sprigionano queste fotografie. Ricordo anche la foto di due piedi, calzati in un paio di scarpe di cuoio ridotte in brandelli (i brandelli mescolati senza sorta di continuità con i pezzi di stoffa grezza dei calzini; i piedi sono piccoli, evidentemente appartengono a un bambino o ad un adolescente, non ci sono didascalie che chiariscano l’arcano, dobbiamo e possiamo intuirlo solo dalle parole del narratore).
Più noiosa, invece, la parte in cui l’autore, da saggista qual’era, cerca di scandagliare la letteratura tedesca scritta immediatamente dopo la fine del conflitto per verificare come e perché molti autori si chiusero a riccio o adottarono il silenzio, o l’autocensura, nei confronti di quella tragedia. Intere città rase al suolo, con effetti simili, se non peggiori, a quelli causati dal lancio della prima bomba atomica su Hiroshima e nessuno, tra intellettuali impegnati o romanzieri di fama, che avesse preso posizione dinanzi alle migliaia di morti e feriti caduti sul suolo patrio.
Poi è stata la volta di Austerlitz: lo comprai in Italia, ma lo lessi a Madrid, restando folgorato dalla storia angosciante e comicamente triste dell’individuo omonimo del titolo. Un bambino cresce in una famiglia medio-borghese e i familiari riescono a nascondergli l’avvento del nazismo, gli orrori dei campi di concentramento e delle persecuzioni razziali, fino a quando non cresce e, diventato adulto, compie una sorta di ricerca del tempo perduto, riscoprendo, all’indietro, le sue antiche origini ebraiche, tra foto d’epoca e d’infanzia, pubblicistica antiquata e paesaggi evocativi di un mondo che non c’è più (non scorderò mai l’evocazione della stazione d’Orsay, prima che divenisse l’attuale Museo parigino, né l’analisi delle origini del manicomio di Bedlam, vicino a Londra, famoso anche tra i letterati del 700 – ne ho trovato tracce nel Sentimental Journey del reverendo Sterne, oltre che nel – di poco – successivo The Man of Feeling, dello scozzese Henry Mackenzie; le ricerche sono continuate nel corso degli anni, anche attraverso internet: oggi esiste un museo dedicato ai freaks più famosi ospitati in quel luogo dedito alla cura delle malattie mentali e ormai chiuso per sempre).
Ora che mi fermo a pensarci Sebald è uno dei pochi autori i cui libri possiedo in versioni diverse dall’italiano: comprai, come ho già ricordato in un post precedente, Les émigrants in francese e gli introvabili The Rings of Saturn in inglese. Oltre a questi titoli, ho anche, in italiano, la raccolta di racconti Vertigini e in spagnolo la raccolta di saggi di critica letteraria Pútrida patria (il cui titolo originale, però, dovrebbe essere, in italiano, Camposanto, termine – oltre che luogo - che riassume bene parte della poetica a volte cupa, altre “decadente”, dell’autore - ma non manca mai l'ironia e un peculiare senso dello "humor" in questo autore schivo, anche quando parla di "distruzione", "morti" e "tracce che scompaiono sulla sabbia").
Spagnolo, francese, inglese, italiano. Peccato che non conosca il tedesco.
The Rings of Saturn (ovvero: “Gli anelli di Saturno”) è forse la sua opera migliore. Si tratta di dieci racconti attraverso i quali l’autore ripercorre, rievocandoli, i suoi viaggi di perlustrazione intorno alla costa dell’Inghilterra dell’Est. Guidato da un acutissimo senso della morte e della lenta metamorfosi di tutte le cose in polvere, in fumo, in nulla, sotto l’astro letterario del grande maestro di stile Sir Thomas Browne (un medico inglese della seconda metà del XVIII sec., ossessionato dai cadaveri – e da ciò che resta, per poco, dopo che saremo morti), oltre che da certi ghigni metaletterari alla Borges, Sebald ci accompagna in un viaggio nello spazio che è anche e contemporaneamente un viaggio nel corso del tempo. Anche in questo libro il lettore resterà sorpreso dalla presenza di foto sconcertanti. Come quelle dei resti di alcune costruzioni militari smantellate intorno agli anni 70 nel promontorio di Orford, un luogo sperduto in cui gli inglesi compivano i loro esperimenti nucleari per non essere da meno delle due potenze che spaccavano il mondo durante gli anni della Guerra Fredda (gli USA, da un lato, e l'URSS, dall'altro). Il lettore che contempli le foto senza leggere il testo non riuscirebbe ad attribuire uno spazio geografico certo a quei paesaggi. “I imagined myself amidst the remains of our own civilization after its extinction in some future catastrophe”, commenta l’autore, che, come spesso succede, qui è anche narratore e personaggio protagonista della storia che ci racconta. “Mi immaginavo come se fossi tra i detriti della nostra civiltà dopo la sua stessa estinzione in qualche futura catastrofe”: non trovo definizione migliore per la scrittura di Sebald, la quale nasce dalla contemplazione di ciò che resta, nel tempo, e si eleva al di sopra del contingente per portarci a riflettere proprio sulla finitezza del tempo e sulla falsa eternità che acquistano gli oggetti, i monumenti, le date e le persone una volta che il loro tempo è trascorso e si è definitivamente consumato (ma il tempo si consuma davvero? Le foto non servono a "eternizzare" quanto accaduto e una volta era "presente"? Rileggere con attenzione il saggio La chambre claire di Roland Barthes).
Sebald cattura con una prosa scarna e ipnotizza mentre riflette sulla “deperibilità” stessa della propria esperienza vitale. Morì vicino a Norfolk, lì dove si pensa che vennero rinvenute le ossa di Sir Thomas Browne, il quale, a sua volta, aveva dedicato bellissime pagine proprio al destino delle nostra ossa una volta sepolti: quelle parole vennero tradotte, prima, e parafrasate, poi, dallo spagnolo Javier Marías, in un suo libro che, guarda caso, s’intitolava El siglo e così suonano (ancora oggi, per chi abbia voglia di leggerle):
“¿quién conoce el destino de sus huesos, o cuántas veces lo habrán de enterrar? ¿Quién posee el oráculo de sus cenizas, o sabe hasta dónde llegarán a esparcirse? ¿Quién intuye qué pisadas hollarán su tumba, o cuántas urnas se volcarán? ¿Quién el tacto y forma de su calavera, o el humo pestífero de sus propias reliquias?”.
Ovvero:
“chi conosce il destino delle proprie ossa o quante volte verranno sotterrate? Chi possiede l’oracolo delle sue ceneri, o sa fino a quando dovranno essere sparse? Chi intuisce quali orme verranno lasciate sulla propria tomba, o quante urne verranno rovesciate? Chi il tatto o la forma del proprio teschio, o il fumo pestilenziale delle proprie reliquie?”.
L’ultimo racconto de Gli Anelli di Saturno si chiude con un immagine icastica del trapasso: Browne credeva che si dovessero coprire tutte le superfici riflettenti della casa del morto per evitare che questi potesse vedersi specchiato e, così, distrarsi o rattristarsi per quanto si lasciava dietro le spalle (la vita terrena; che gli specchi riproducono, ingannandoci perfino al momento del distacco). Mi chiedo, ora, a distanza di 6 anni dalla sua scomparsa: dove sarà mai sepolto W. G. Sebald? Una cosa è certa: i suoi libri ci parlano e continueranno a farlo, almeno finchè esisteranno lettori curiosi e inquieti pronti a partire per viaggi intergalattici intorno a questa nostra povera Terra, piena di immagini morte o ambigue e affascinanti, che continuano a guardarci e a spiegarci, forse, chi siamo.
jueves, agosto 02, 2007
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