miércoles, mayo 20, 2009


Inquietante Bufalino (II)

Ora che sono arrivato alla fine (più volte posticipata, raggiunta controvoglia, perché Diceria dell'untore è uno di quei libri che vorresti non finisse mai; perché l'opera più famosa di Bufalino rientra appieno in quella categoria di romanzi rari in cui la trama è ciò che meno conta e in cui lo stile è talmente "nuovo" e "originale" che concederesti alla voce narrante di portarti dove vuole lei, purché continui a cullarti, e a convincerti delle sue "false ragioni", delle sue scomode verità, del suo ritmo ipnotico - esperienza rara anche questa, a me è capitata solo con Joyce, Nabokov e, ultimamente, W. G. Sebald), dicevo, ora che sono arrivato all'ultima pagina e ne so molto di più, di Diceria dell'untore e di colui che l'ha scritta, mi viene voglia di rituffarmici, per respirare di nuovo la sua atmosfera, per cercare di carpire almeno un po' i segreti dei vari personaggi che la popolano, per cercare di capirci davvero qualcosa...

Provo a fare ordine (seguendo anche i consigli spassosi, talvolta seri, più spesso ironici, che Bufalino ci offre in una sorta di "Istruzioni per l'uso" e di una "Guida-indice dei temi" acclusi nell'edizione che ho - Milano, Bompiani, 1992):

1) il tema della morte e, a esso parallelo, quello della permanenza dei morti presso i vivi grazie alla parola:

- l'intero libro si presenta come una sorta di discesa agli Inferi di stampo dantesco (e nella fitta rete intertestuale la presenza di Dante non è affatto secondaria). Chi narra è un malato dato per spacciato dal medico della Rocca, una sorta di ospedale che è anche carcere o fortino o isola staccata dalla realtà terrena. Il narratore parla di morte con il Grande Magro (il medico-padrone della Rocca) e ne tenta un'analisi sia a partire dal proprio corpo che dalla contemplazione di quello di Marta (la femme fatale di cui s'innamorerà platonicamente e carnalmente come se si trattasse di una specie di strega o fantasma che potrà aiutarlo a sopportare il clima lugubre della Rocca). Sia il narratore che Marta sono due morti viventi che vagano tra i moribondi in cerca di consolazione o di un sogno che li sottrogga - seppure temporaneamente - all'influsso mortifero dell'ospedale.

Tra i pazienti, quello più piccolo, il bambino Angelo, un giovane reduce della Secondo Guerra Mondiale che dà l'ordine ad una suora di spedire lettere "fittizie" alla mamma che non lo vede da troppi anni ormai.

"In esse narrava il romanzo futuro di sè, vanta paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remore. Sua madre - ci spiegava - sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l'eco della cara voce scomparsa" (p. 20).

Le parole di una lettera che racconta fatti mai accaduti come strumenti per sopportare la vita e continuare a vivere nel ricordo di una madre che non può più riabbracciare il figlio: ecco un esempio di come i morti continuano a vivere nel ricordo dei vivi... Solo che Bufalino è autore ironico, oltre che umoristico, e aggiunge:

"Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisia, se non l'ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie di un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?)" (id).

2) la malattia come condizione esistenziale e come causa della scrittura:

- il lettore di Diceria dell'untore viene instradato su una possibile, prima e coerente ipotesi interpretativa sin dalla prima epigrafe con cui si apre il romanzo: DICERIA: "Discorso per lo più non breve detto di viva voce; poi anche scritto e stampato... Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte... Il troppo discorrere intorno a persona o cosa..." E chi è che sparla o parla troppo e a viva voce se non il febbricitante? Il narratore soffre di un male all'apparenza incurabile (la tubercolosi, che tanti morti aveva fatto prima delle scoperte mediche del 900) e patisce un continuo stato febbrile che lo spinge a sparlare, a sproloquiare, a parlare a volte in modo "automatico" sin dalle prime righe del romanzo. Che, non è un caso, si apre a caso, su una avversativa di cui ci viene sottratta la prima parte: "O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno". Febbre e sogni (e incubi) come motori all'azione, o meglio, alla narrazione. La malattia diventa quindi non solo (e non tanto) materia, contenuto portante dell'opera, ma anche (e soprattutto) condizione esistenziale "privilegiata" da cui guardare la realtà (il mondo di tutti i giorni) e condizione "ideale" per avviare l'atto di scrittura. Ovvio, dunque, che la scrittura (o la voce viva) che ne scaturisca sia contraddistinta da un ritmo sincopato e da un linguaggio e uno stile a volte di difficile decifrazione, altre volte lirico, altre ancora ermetico (insieme a Dante, Montale e le sue poesie fanno da sfondo culturale a diversi brani).
Lo sproloquio, l'abbondanza metaforica e lirica, sono cifre dello stile di questo narratore che ci parla da questa "non-esitenza" o "esistenza in crisi". Lo dice lui stesso, poche righe sotto la citazione che ho fatto dall'episodio delle lettere di Angelo:

"[...] la febbricola quotidiana metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, ma sul tardi - lo stesso capita quando si beve - un esubero di parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui io per primo (ve n'accorgerete) non ho saputo guarire mai più..." (p. 21).

3) la presenza dell'amore e l'ossessione del sesso:

- al centro di Diceria dell'untore c'è un mistero: Marta, una donna di cui il narratore s'innamora perdutamente, che possiede fisicamente, e che poi sembra abbandonare a se stessa quando s'accorge che questa finge di essere malata o smania per mostrarsi sull'orlo dell'abisso (la morte, che, effettivamente, la coglierà durante una specie di fuga dalla Rocca insieme all'amato). Di Marta il lettore sa molte cose, ma non l'essenziale. Si dice fosse di origini ebraiche e che fosse stata una "Kapò" durante la Seconda Guerra Mondiale (un'ebrea spia che offre informazioni ai nazisti per avere salva la pelle o godere di un trattamento speciale). Marta è anche l'epitome fisica di altre due tematiche centrali del libro: l'amore e il sesso. Il narratore sembra un bambino quando favoleggia intorno ad un possibile futuro insieme a Marta; e sembra un maniaco quando finalmente può spogliarla e toccarla dal vivo (ciò che più impressiona è vedere quanto sia "realistico" l'autore a mostrarci in quanti modi assurdi sono tra loro legati sesso e malattia in un contesto "lugubre" come quello dell'ospedale-fortino). C'è un brano in cui amore e sesso si compenetrano in nome di un'ironia a volte amara, altre sinceramente sarcastica:

"Che strano innamorarsi di un corpo che mangia, secerne, si svuota: denso di villi, papille, isole del Malpighi... Nomi del mio liceo di anteguerra, che mi ripetevo ora, recuperandoli al di sopra del frastuono degli anni, per servirmene a investigare la geologia di quell'umido sepolcro di carne, con la solerzia d'un generale che si curva, alla vigilia dell'invasione, su una carta di territorio nemico" (p. 78 - immagino il luccichio negli occhi dei critici della corrente psicanalitica - quanti spunti per una lettura "freudiana" di un tale approccio al sesso femminile).

4) la intentio auctoris violata:

questo quarto punto non tocca il romanzo; riguarda direttamente l'esperienza dell'autore. Gesualdo Bufalino immaginò l'impianto della Diceria dell'untore nel 1950, quando ha trent'anni suonati; completa una prima stesura dell'opera nel 1971 (quando di anni ne ha 51!); si rifiuta di mandarlo in stampa o di mostrarlo agli editori fino a quando, nel 1981, si lascia convincere dalle insistenti richieste di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia. La domanda è: perché tanto riserbo? Qual era la vera intenzione dell'autore se poi ha tenuto nascosto il romanzo per 31 anni? Una possibile risposta ce la offre Bufalino stesso nell'intervista che ha concesso a Sciascia in occasione della pubblicazione della prima edizione del libro: ha sempre sofferto di quella che lui chiama "sindrome di Wakefield" (dal personaggio dell'omonimo racconto di Hawthorne). Non è mai stato attratto dalla vittoria, dalla fama, dal successo. A lui piaceva perdere. Anche negli scacchi (di cui era un grande esperto): preferiva giocare per - alla fine - far compiere l'ultima mossa vincente e risolutiva all'avversario... Curioso scrittore, allora, questo Bufalino... E ora capisco perché piace tanto a Vila-Matas che in Bartleby y compañía ha tentato di scrivere la storia della Letteratura del No, di coloro (e sono tanti) che hanno smesso di scrivere o che non hanno mai scelto di pubblicare le loro opere pur essendo scrittori apprezzabili...
Diceria dell'untore fa riflettere anche su questo: sul perché ci sono scrittori che scrivono per pubblicare e sul perché ce ne sono altri, che, come Bufalino, hanno scritto per il puro piacere personale e senza fini di lucro o di fama... Sul mistero della creazione letteraria, dunque, e sul mistero della sua controparte: sul perché di tante parole, invece della pagina bianca.

"Io avevo compiuto un viaggio, un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia. "Veni foras" mi ordinai nel pensiero. "Lazzaro, vieni fuori". E mi rituffai nell'aria di fuori, la sentii con riconoscenza aprirsi amica ad accogliermi, farmi posto dentro di sè, come la sabbia ad un corpo nudo" (p. 132).






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