
Inquietante Bufalino
Su consiglio dello spagnolo Enrique Vila-Matas, ho acquistato - e sto leggendo in questi giorni di traslochi - Diceria dell'untore del siciliano Gesualdo Bufalino. Sono arrivato solo a metà, ma il libro mi ha già conquistato, ipnotizzato, spossato come pochi libri negli ultimi anni sono riusciti a fare... Ho saltato volutamente la pagina critica introduttiva, e l'intervista realizzata da Leonardo Sciascia e concessa allo stesso dall'autore (un tipo schivo, solitario, che avrebbe fatto a meno di "pubblicare", non fosse stato per l'intervento provvido dello stesso Sciascia). E mi sono immerso nella lettura del testo, senza guida, senza concetti precostituiti, senza neppure sapere quando, esattamente, fu scritto (so, dal risvolto di copertina, che apparve nel 1981; ma l'anno di composizione è piuttosto anteriore a quella data).
E di cosa parla Diceria dell'untore? Di morte e di malattia; di malati che, ricoverati dentro una specie di manicomio o ospizio abbandonato da Dio, sognano di avere una vita migliore, là fuori, in mezzo ai vivi. Di amore e di innamoramenti improvvisi. Come quello del protagonista (e voce narrante) per Marta (i cui polmoni sono minati da un tumore maligno, come, forse, quelli del protagonista).
Eros e Thanatos: impulso vitale e impulso di morte.
Si parla anche di guerra e dei ricordi legati alla guerra, in questo libro strano, scritto in una lingua sconosciuta (come direbbe Proust, sono proprio i libri che "sembrano scritti in un'altra lingua", pur essendo la nostra, pur essendo la lingua madre che conosciamo bene, a creare maggiore inquietudine, e, forse, piacere estetico)...
Chi narra l'ha fatta la guerra, e ne porta le ferite sia sulla pelle che nel cervello.
E si parla di Dio. E della sua possibile esistenza. Alcune delle pagine più belle riguardano proprio il cappellano militare, Padre Vittorio. Con lui, il protagonista ha duelli verbali intorno al Bene e al Male, a Gesù e al Diavolo.
Le pagine in cui egli trascrive i pensieri più disperati e intimi di Padre Vittorio fanno venire i brividi.
"Com'è difficile, Dio", dice il prete e trascive il narratore-spia.
"Pena di doversi lasciare a metà, dopo aver fatto con se stessi così poca strada, curiosità di conoscere il seguito (seppure esista altrove un copione completo...)"...
E poi questo:
"Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono. Sarà così, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge, cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?".
E infine un improperio, una bestemmia, o quasi, una sfida, un lamento alla Giobbe:
"Fatti vedere, Tu che mi spii".
Non so come finirà. E non mi interessa. Sono a metà dell'opera e questo mi basta. Voglio ritardare al massimo l'arrivo alle pagine finali. E rimanere immerso nell'inquietudine...
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