viernes, agosto 28, 2009


J. M. Coetzee, Diario de un mal año, Barcelona, Debolsillo, 2009 (tit. originale: "Diary of a Bad Year", 2007; trad. it.: "Diario di un anno difficile", Torino, Einaudi, 2008).

Di Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura del 2003, avevo letto soltanto un romanzo, Vergogna, il titolo (di cui parlai in questo blog qualche tempo fa, mettendolo a confronto con il divertente L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo). In questi giorni, mi è capitata tra le mani la traduzione spagnola del suo Diary of a Bad Year (che gli italiani hanno mal tradotto con "Diario di un anno difficile", quando nell'originale si capisce benissimo che si sta parlando di un anno "cattivo", e non "difficile", comunque...).

Che cos'è questo Diario? Come classificarlo? Si tratta veramente di un diario? La risposta è difficile. Tipograficamente il lettore si trova davanti non una, bensì 3 storie o pezzi di diario differenti e alternati tra di loro in modo simmetrico e costante. Il primo diario (o presunto tale) è quello redatto da una sorta di alter-ego dell'autore: uno scrittore afroamericano molto famoso e ormai invecchiato cui viene chiesto di descrivere le sue impressioni e i suoi pensieri sulla politica e sul mondo contemporanei. Il diario verrà pubblicato da una casa editrice tedesca insieme alle impressioni di altri autori importanti sotto il titolo (nabokoviano) "Opiniones contundentes" (che sembra effettivamente la parafrasi di Intransigenze di Vladimir Nabokov). Il secondo diario narra invece le vicissutidini dello stesso scrittore nel momento in cui contratta una bella e giovane filippina per farsi "mecanografiar" i suoi testi in quanto impossibilitato a trascriverli in bella copia sia per problemi di vista che per un incipiente forma di Parkinson (anche se, nel corso del libro, non si dice mai esplicitamente quale sia la malattia - forse mortale - che porterà l'uomo vicino alla morte). Il terzo diario, infine, è quanto narra (dal suo personale e soggettivo punto di vista) la stessa ragazza filippina, la cui vita subisce un insperato cambiamento radicale proprio a causa di questo lavoro inaspettato in qualità di "redattrice" dei pensieri di un altro (un intellettuale, addirittura, una persona famosa le cui parole vengono ascoltate e criticate da molti).

Quello che colpisce del "Diario" (che, a questo punto, si struttura anche come romanzo, in quanto dotato di inizio, sviluppo e fine catartica inclusa) non è solo e non è tanto quanto viene detto in modo "contundente" dallo scrittore, quanto e soprattutto il modo in cui questi 3 diversi piani o livelli narrativi si intreccino fra loro creando cortocircuiti davvero inaspettati e "moralmente" rivelatori di quello che pensa davvero lo scrittore, di quello che pensa la ragazza filippina di lui e di come i pensieri di entrambi si modificano proprio per il contatto quotidiano che si stabilisce tra chi "detta" e chi "trascrive" e mette nero su bianco quello che la voce "dice" o "pensa".

E' inutile aggiungere che, alla fine di questo contatto, i due cambieranno per sempre il loro modo di agire, oltre che il loro modo di rapportarsi alla vita.
E' interessante, invece, sottolineare come Coetzee, in questo "diario", riprenda lo stesso atteggiamento critico e moralmente teso che aveva già manifestato in Vergogna (e che, temo, abbia manifestato anche nei restanti romanzi): Coetzee, come Dostoevskij, sa creare letteratura a partire da interrogativi morali; non ci dice mai direttamente dove sta il bene e dove il male; drammatizza il ruolo che bene e male hanno (sempre) nella nostra vita quotidiana (e in quella "romanzata" dei personaggi da romanzo).

Gli spunti che offre in tal senso l'autore sono "infiniti". Dal significato della parola "anarchia" alle sue considerazioni sulla politica di Bush Jr. e sulle prigioni di Guantanamo; dal modo in cui "uccidiamo" e "mangiamo" gli animali alla pedofilia; dal sentimento della "compassione" alle analisi dei romanzi dello stesso Dostoevskij, Coetzee, attraverso il suo alter-ego con difetti di vista e mani tremanti a causa della malattia che gli impedisce di trascriversi da solo i propri pensieri, ci fa riflettere su quello che siamo diventati dopo l'11 Settembre 2001 e su quello che potremmo arrivare a essere in futuro.

Uno dei tanti "pensieri contundenti" o "affilati" di questo scrittore ormai in declino:

"Nasciamo sudditi. Dal momento in cui nasciamo siamo sudditi. Un distintivo di questa condizione è il certificato di nascita. Lo stato perfezionato detiene e protegge il monopolio di certificare la nascita. O ti danno il certificato dello stato (e lo porti con te), e con esso acquisisci una identità che nel corso della vita permette allo stato di identificarti e di seguire le tue orme (di ripescarti), oppure vivi senza identità e ti condanni a vivere fuori dallo stato come un animale (gli animali non hanno documenti d'identità).
Non solo non puoi entrare nello stato senza certificazione: per lo stato non sei morto fino a quando non viene certificata la tua morte; e può certificare la tua morte solo un funzionario che, a sua volta, detiene una certificazione da parte dello stato. Lo stato procede alla certificazione della morte con straordinaria meticolosità, come dimostra l'invio di un gran numero di scientifici forensi e burocrati per ispezionare e fotografare e toccare e spingere la montagna di cadaveri umani che lasciò dietro di sè il grande tsunami del dicembre del 2004, al fine di stabilire le loro identità individuali. Non si bada a spese affinchè si assicuri che il censo dei sudditi sia completo ed esatto.
Che il cittadino viva o muoia non è un problema che preoccupa lo stato. Ciò che importa allo stato e ai suoi registri è sapere se il cittadino è vivo o morto".
(p. 12 dell'ed. spagnola; la traduzione è mia).

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