lunes, agosto 24, 2009

La cipolla, di Antonio Moresco (Torino, Bollati Boringhieri, 1995): romanzo mancato sull’amore come mistero



Di che cosa parla La cipolla di Antonio Moresco? Premetto che l’attesa era molta, dopo l’esperienza compiuta leggendo quel capolavoro sconclusionato, erotico, sconvolgente, ironico e iperrealista che è Canti del caos. E anticipo che La cipolla mi ha deluso, dandomi come l’impressione di qualcosa di non concluso, di non perfettamente chiuso o architettato nelle sue parti. Come un abbozzo della furia che l’autore ha portato al parossismo soltanto dopo, nelle tre parti dei Canti del caos.

Ma andiamo per ordine: chi narra è un io anonimo che osserva il mondo esterno come da una distanza che gli impedisce di capire bene dove si trova; ai suoi occhi, la realtà “oggettiva” sembra immersa nella nebbia (“Mi capitava di riconoscere voci conosciute provenienti da volti sconosciuti”, afferma a p. 26, agli inizi della sua vicenda esistenziale). E in effetti, il senso di spaesamento è voluto: fino alla fine del romanzo, non sapremo mai dove ci troviamo, in quale città (reale o fantastica) è ambientata la vicenda.

L’io è spaesato anche per il rapporto che stabilisce con la compagna: nemmeno di questa ragazza sapremo mai il nome; in realtà, e per dirla tutta, della donna non sapremo mai nemmeno com’è fatto il viso, come porta i capelli, come cammina, quanti anni ha. Si sa solo che ama ascoltare la musica con le cuffiette (e il protagonista maschile pensa che dalla vagina di lei possa uscire quella stessa melodia che la cattura) e che si presta a volte controvoglia alle avances sessuali del compagno, una sorta di “amante ipersessuato” la cui vita inizia a subire una inquietante mutazione nel momento in cui scopre che, adiacente alla loro camera da letto, c’è la camera di un’altra coppia che, a quanto si intuisce, è spesso intenta a fare l’amore o a scambi di effusioni più o meno innocenti.

Chi di noi non si è fermato a sentire (a origliare, appiccicando magari l’orecchio alla parete) qualcuno che, a notte fonda, se la spassava con il partner sotto le lenzuola? Chi non ha mai avvertito la tentazione di passare al di là del muro per vedere con i propri occhi e per sentire con le proprie orecchie i gesti, le parole, gli sguardi di una coppia di amanti?

L’anonimo protagonista ribattezza i due con i nomi (alquanto ridicoli) di Tato e Tata. Li spia, ne immagina i dialoghi, o i mozziconi di dialoghi possibili, spingendosi sempre più in là nelle perversioni che pratica con la propria compagna. Scatta una sorta di sfida tra le due potenziali coppie di amanti in cui il protagonista si riserva il ruolo (in realtà mai adempiuto) del regista che sa e che vede tutto.

Le descrizioni dell’atto (o del desiderio) sessuale risultano però anch’esse un po’ troppo macchinose; come al cinema, così in letteratura: è impossibile descrivere – narrare – raccontare per immagini o a parole cosa succede quando due persone fanno l’amore (o fanno sesso selvaggio, nei casi in cui il sentimento amoroso non c’è o latita). Moresco si sofferma troppo e in modo fin troppo ginecologico su certe scene che, pur rasentando la pornografia (o proprio per questo motivo) ci lasciano indifferenti o inerti, non ci scioccano, né riescono mai a commuoverci e a rivelarci parte del mistero legato al sesso (e all’amore che si esplica attraverso di esso); cito, su tutte, quella che appare a p. 55:

“Le tenevo aperta la vulva con le dita, da sotto, fantasticavo di farci penetrare la mano tutta intera, distendendola all’interno un dito dopo l’altro fino ad afferrarmi il pene conficcato dentro il retto, gonfio e nero e pieno di papille, masturbandomelo dentro di lei fino a farlo sparare contro la massa morta delle feci. Lo sentivo contrarsi duramente, quasi disarticolandole le ossa. Lei gemeva più forte, allarmata, mentre menavo gli ultimi colpi in quella melma scura e calda, parte materna della donna”.

Sembra più la descrizione d’una battaglia campale che quella di un rapporto passionale. Quando si parla di sesso (al cinema o in letteratura, ribadisco, l’errore è il medesimo) o si adotta l’ellisse o si adotta la tecnica della descrizione chirurgico-ginecologica: nel primo caso possiamo imbatterci in Paolo e Francesca così come ce li presenta Dante nel canto VI dell’Inferno; nel secondo caso, invece, possiamo incontrare Justine e compagne così come ce le narra ne La filosofia nel boudoir il Marchese De Sade; tra le due tecniche io preferisco la prima; ciò non toglie che sia grande letteratura anche quella che ha scritto il Divin Marchese (o quella che avrebbe potuto scrivere Moresco ne La cipolla se avesse fatto più attenzione a certi effetti “splatter” che, sinceramente, aggiungono poco o nulla al contenuto del romanzo).

E con ciò torniamo al romanzo: il narratore-protagonista soffre per un rapporto sempre più ossessivo sia verso l’amante che verso i due sconosciuti vicini di casa. Compra anche due tartarughine; le nutre, ma muoiono (prima l’una poi l’altra). Gira come uno zombie per le strade della città senza nome fino a quando, tornando a casa, non s’imbatte in una cipolla (quella cui allude il titolo non è una cipolla vera; è solo disegnata, ovvero scolpita in bassorilievo su una delle mattonelle che sovrastano il letto matrimoniale). Il protagonista l’osserva fino a quando non si accorge che l’umile cipolla sta germogliando. Alla fine, questo fenomeno naturale sembra assumere valore simbolico rispetto alla vita che la compagna sembrerebbe albergare nel suo utero, pronto a dare fertilità a una creatura futura.

Ecco, questo finale lascia inconcluso il tutto: ma non perché sia un vero “finale aperto”, quanto perché lascia l’intera trama a galleggiare in un vuoto in cui le parti non si tengono, sono come sfilacciate tra loro.

I presupposti per scrivere un ottimo romanzo sul mistero dell’amore (e del sesso) c’erano tutti; gli strumenti che Moresco ha usato per conseguire questo scopo (se mai abbia davvero voluto conseguirlo – in fin dei conti, sono un semplice lettore, e non pretendo di stare dentro la testa di uno scrittore tanto affascinante, quanto complesso e, a volte, disturbante, come è per me Moresco) risultano però inadeguati.


Non sapremo mai se il protagonista riuscirà a superare la crisi e ad accompagnare la propria donna in un cammino di crescita spirituale come uomo e come (futuro) potenziale padre; e non sapremo mai se la donna darà davvero vita a un (futuro) potenziale figlio. Così come non si saprà mai che fine faranno Tato e Tata, dopo tanti dialoghi spiati o riportati solo di traverso (dialoghi forse tutti immaginari perché immaginati dal protagonista perturbato).

Aspetto di leggere Clandestinità per dare un nuovo giudizio su Antonio Moresco; per il momento, Canti del caos resta il suo capolavoro; e Lettere a nessuno un libro bellissimo, scottante e che andrebbe letto e riletto anche a scuola. Quello sì, è sia un romanzo sia un ottimo reperto su che cosa è diventata (oggi) l’Italia. La cipolla no, questo no. Non mi ha convinto.

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