sábado, enero 30, 2010

Le citazioni di Proust: tra echi e rime interne

L'aveva già detto Italo Calvino in una raccolta di saggi tanto brevi quanto densi, le famose (e inconcluse) Lezioni americane: "Come nelle poesie, così nei testi in prosa, nei racconti o nei romanzi, ci sono frasi che rimano tra loro, avvenimenti che riecheggiano e creano un sistema di echi e di ritmi interni non dissimile da quello che formano le rime in un sonetto" (la citazione è mia e non verbatim).

Proust ne è l'esempio (forse) più esplicito: nella Recherche (ovvero: nel maremagnum della Recherche) certi personaggi, alcuni fatti, determinati ricordi del Narratore si ripetono, vengono citati o ricordati in modo leggermente diverso da quando sono stati evocati per la prima volta in un modo tale che il lettore non può non avvertirli come una sorta di dejà-vu (con tutta la carica d'inquietudine, di vertigini, d'instabilità ontologica che questo fenomeno è solito suscitare in ognuno di noi). Ed esemplare, in tal senso, è l'uso (polimorfico e polisemico) delle citazioni, le quali vengono predisposte e organizzate da Proust proprio per dare vita ad una sorta di sistema di sotto-testi o sotto-trame nascoste che, in modo a volte implicito e altre decisamente enigmatico, punteggiano l'intera trama del romanzo.

In un post precedente ho citato Barthes e la sua teoria dell'effet du réel per dire che a Proust quell'effetto di realtà non interessa affatto: se Proust inserisce i nomi veri (reali) delle strade della Parigi a lui contemporanea (o dei negozi alla moda, delle chiese più note, dei posti più chic, degli angoli più pittoreschi e meno noti) non è per dare l'idea di un maggiore realismo, di una maggiore e presunta fedeltà del narratore alla realtà che descrive, quanto per immergere quei pezzi di realtà dentro la cornice "autonoma" del suo romanzo (è da Omero che gli scrittori mescolano realtà e fantasia; ma è da Cervantes che si arrischiano a usare i pezzi della realtà, le nozioni che conosciamo sul piano della realtà, per farne strumenti utili a creare la "realtà" di secondo grado o la "realtà immaginata" del romanzo; Proust cita pezzi di realtà come fossero oggetti utili a puntellare la realtà "altra" del suo romanzo; e se oggi uno storico volesse conoscere usi e costumi della Parigi dei primi del 900 avrebbe maggori probabilità di scorgere la verità andandosi a rileggere la Recherche piuttosto che spulciando i libri di storia dedicati alla stessa materia...).

E così, in una citazione che parla del tempo, il Narratore può esprimere verità che verranno ribaltate (o ingnorate o eluse) in una citazione successiva sullo stesso argomento...Un argomento clou, visto anche il titolo dell'opera. E se in una prima citazione potrebbe anche legare il mistero del tempo al modo in cui esso entra a far parte degli strumenti che ha a disposizione il romanziere per dare un senso alla sua storia, così, in una seconda occasione, potrebbe allargare quello stesso tema per includervi...se stesso in quanto "scrittore in erba" o "romanziere in potenza" della propria vita personale.

E' quello che succede alle pp. 582-83 (da Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, "All'ombra delle fanciulle in fiore. Intorno a Madame Swann"):

"Il secondo sospetto [...] era ch'io non mi trovassi al di fuori del Tempo, bensì sottoposto alle sue leggi, esattamente come quei personaggi letterari che, proprio per questo, mi rattristavano talmente quando, a Combray, in fondo alla mia poltrona di vimini, leggevo la loro vita. Teoricamente uno sa che la terra gira, ma di fatto non se ne accorge, il suolo sul quale cammina sembra che non si muova, e si vive tranquilli. Lo stesso avviene col Tempo nella vita. E, per renderne percettibile la fuga, i romanzieri sono costretti ad accelerare follemente gli scatti della lancetta, facendo varcare al lettore dieci, venti, trent'anni in due minuti. [...]. Dicendo di me: "Non è più un bambino, i suoi gusti non cambieranno più, ecc.", mio padre aveva fatto apparire di colpo ai miei occhi l'immagine di me stesso dentro il Tempo, e mi causava un particolare genere di tristezza, come se fossi stato, non ancora il vecchio illanguidito dell'ospizio, ma uno di quegli eroi dei quali l'autore, in un tono che l'indifferenza rende particolarmente crudele, ci dice, alla fine d'un libro: "Lascia sempre più di rado la campagna. Ha finito per stabilirvisi definitivamente, ecc.".

Ora, questa riflessione (il Narratore che si vede come un personaggio letterario "dentro il Tempo" e non più fuori per colpa della frase del padre) è pronta e disponibile a nuove ri-scritture. E il lettore non potrà non stare all'erta: uno può anche sentirsi (percepirsi) fuori o dentro del Tempo; ma a partire da questa citazione non potrà non sentirsi partecipe degli "sprofondamenti" nel Tempo del Narratore. E starà attento a capire quando il Narratore vuole farlo sbilanciare da un lato o dall'altro dell'abisso che si apre tra "dentro" e "fuori".

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