
jueves, mayo 27, 2010

domingo, mayo 23, 2010

Ci sono dei libri i cui titoli esercitano sul lettore una forza tale d’attrazione per cui diventa poi impossibile non prenderli e vedere di cosa parlano. Ultimamente mi è capitato con un saggio di Jean-Luc Godard, dal titolo (curioso e, al contempo, ambizioso, fors’anche pretenzioso): Introduzione alla vera storia del cinema (Roma, Riuniti, 1982) (dove l’aggettivo “vera” pone domande non meno serie del sintagma “storia del cinema”, visto colui che scrive).
Si tratta, in realtà, di una specie di saggio ricavato dalle lezioni che Gordard tenne presso l’Università di Montréal nel 1978. L’idea era parlare della storia del cinema studiando quei registi e quei film che maggiormente avevano colpito e influenzato uno dei cosiddetti “padri” della Nouvelle Vague francese. In pratica, più che di un saggio strutturato in capitoli, si tratta della sbobinatura delle conversazioni (più che delle lezioni, in senso stretto) che Godard fece davanti a un pubblico di studenti di Cinema. Ed è per questo che la lettura mi è sembrata amena, scorrevole e, a tratti, esilarante (con tutti quei puntini di sospensione e quelle ripetizioni e quei tentennamenti da parte del “conferenziere”).
Godard è un tipo difficile: ci sono intere schiere di ammiratori cinefili che lo osannano e che pendono dalle sue labbra; così come esiste un folto esercito di spettatori che non lo sopporta e lo considera uno strafottente, borioso e vanaglorioso maître à penser. Ebbene, entrambe le caratteristiche o tratti caratteriali vengono fuori dalla lettura di questa “vera storia del cinema” godardiana.
Sono davvero tanti gli spunti di riflessione. Ne seguo e ne cito uno soltanto: il significato dell’inquadratura (termine tecnico del linguaggio cinematografico che, per slittamento semantico, è entrato a far parte anche del linguaggio comune).
(p. 25): “Oggi, non so neanche più cosa sia un’inquadratura. In questi ultimi anni ho ripreso delle cartoline, e questo mi ha fatto ripensare ai quadri. E difatti perché il quadro è diventato quadrato, o un po’ rettangolare, e non rotondo? E perché per registrare questo quadrato bisogna passare attraverso degli obiettivi che, invece, sono rotondi? Mettiamo per esempio una telecamera che vi riprende, voi che parlate e io che rispondo, o il contrario; a quel punto ci si chiede: “Se si dovesse inquadrare quel che succede, come bisognerebbe fare? Bisognerebbe mettere la telecamera lì, e poi inquadrare tutto insieme? Bisognerebbe fare un primo piano vostro? O un primo piano mio? O cosa?”. Dunque, bisogna sapere quel che si vuole, per decidere. A quel punto uno avrebbe un’idea di come può essere un’inquadratura e a cosa possa servire. E allora si penserebbe a quel che in francese si dice “un cadre de vie”; ci sono quelli che vengono inquadrati; e, generalmente, quelli che dirigono, vengono chiamati “i quadri”…”
Non ci avevo mai pensato: l’obiettivo della macchina da presa è rotondo, mentre lo schermo è sempre rettangolare (così come, in pittura, la cornice predominante non è quella tonda o ovale, ma quella quadrata o rettangolare).
Ma andiamo avanti: anche noi, anche senza rendercene conto, “siamo inquadrati”, tutti i giorni, anche nella nostra vita quotidiana. Come? Ecco la risposta:
(p. 181): “In che quadro ci troviamo? Tu entri in casa: hai almeno una finestra in casa tua, questo è già un quadro. Anche la porta. Poi c'è la tavola che è quadrata, il letto che è quadrato...Per forza quindi ti trovi inquadrato. Il modo stesso in cui ci accostiamo all'embriologia, o alla nascita, o al codice genetico, sono tutti quadri di una data forma. A volte è un bene che il quadro sia rigido, altre volte lo è meno”.
Uhmm…neanche a questo avevo mai pensato…Eppure, queste osservazioni hanno delle conseguenze enormi, se, appunto, e come fa Godard, ci accostiamo alla storia del cinema (al modo in cui l’uomo, da quando i fratelli Lumiére hanno scoperto il cinema, ha imparato ad inquadrare ciò che vede intorno a sé):
(p. 191): “Quello che conta allora sono i limiti; perché è solo grazie ai limiti che noi possiamo conoscere il nostro desiderio di non-limiti, sia un senso che nell'altro; e conoscere la realtà. Quindi la cornice, il quadro. E' questo ciò che conta. Nella realtà tutto è inquadrato. E che una cosa sia inquadrata in tondo oppure in quadro dipende dal fatto che anche l'immagine è una cosa della vita, e che rappresentare è appunto un modo d'inquadrare. Del resto anche noi abbiamo qualcosa che c'inquadra anche fisicamente, ed è ciò che chiamiamo il nostro corpo. E poi dopo c'è anche il quadro sociale, e c'è il problema dell'inquadratura o dell'angolazione da cui prendi l'inquadratura, che è pure una cosa interessantissima”.
Da qui Godard riflette sulle diverse tecniche d’inquadratura adottate da Ejzenstejn, per il cinema russo, e da Griffith, per quanto concerne il cinema americano (essendo stato il primo l’inventore del cosiddetto “montaggio” – o arte di collegare due o più inquadrature; e il secondo l’inventore del cosiddetto “primo piano” – o arte di valorizzare l’espressione del volto del divo).
Mi fermo qui, questo post è anche troppo lungo (e forse noioso per chi non s’intende o non s’appasiona di cose di cinema).
Godard doveva presentare di persona il suo ultimo film al Festival di Cannes, ma alla fine ha dato buca, lasciando le schiere (contrapposte) di cui sopra con l’amaro in bocca. Qui sotto il trailer (il film s’intitola – in perfetto stile godardiano – “Film Socialisme”):
viernes, mayo 21, 2010
martes, mayo 18, 2010
Frammenti da “Invenzione di Don Chisciotte” (1949)
Don Chisciotte
Anticipa e calcola, prende e abbandona
-nessuno sa chi e quando, e nessuno sa come:
pensa che presto morirà, che occorre cambiare in fretta
-e guarda i suoi paesaggi:
Don Chisciotte
Si espone e si dichiara e si spiega e si dimostra
-questo è Don Chisciotte:
o como qualunque cosa chiusa:
-Don Chisciotte
Canta le sue canzoni di fronte a tutti i luoghi della terra:
ho poco da dire, nulla anzi, nulla da dire:
-io affretto
Il passo, per ritrovarlo:
le pulite ragazze sulla spiaggia che leggono racconti
di altre terre
non sono più con noi:
noi non siamo più con loro:
e tu con me:
la stagione dei gasometri e delle ciminiere è evaporata
nel vento:
la pioggia ci ha colti in corsa, il bavero
era proprio rialzato:
e ridi incomprensibile:
sei l’amico indifferente, senza peso:
sai soffiare sulle tue mani, inventare il tuo vento –
ti lascerò personaggio, anche se Dulcinea non vorrebbe,
homme plein de sens
-a fingere da solo le storie poliziesche,
a inseguire le fanciulle verdi:
avrai la tua solitudine:
-il gatto si rifugia sull’albero:
ha raggiunto i rami
più sottili – la turba dei meschini ha le scale e le scope:
il chiarore è un cerchio, segue una zona oscura, il terzo
settore è di luce:
la pioggia arriva a tratti diseguali,
le formiche ti insidiano, ti assediano, Dulcinea,
non puoi fuggire:
sul ponte gli uomini oziosi contemplano
ombre, biciclette nere controluce, mentre cercano le donne:
le caserme si illuminano, i soldati si gettano sul prato,
Dulcinea sta sugli alberi –
Viaggia sull’elefante candido di marmo, ma per una
Repentina conclusione è scagliata a terra:
la ragione
è nei ponti, che sono pieni di significati:
-il ragazzo
Bruciava le formiche concentrando la luce nella lente:
-le assorbiva crepitanti nello zolfo –
Wir haben, wo wir lieben, je nur dies: einander lassen:
dove l’orizzonte è più basso, ormai appena visibile,
per Dulcinea si solleva, e per lei soltanto, il profilo
di sogno del viaggiatore sensibile:
inchini inaugurali
per la luna che ritorna, per la cenere che sui giardini
si consuma:
per il tuo profilo che resiste nel silenzio:
insistente mi evoca, io sono l’uomo che deve partire:
il torneo riprende – la risata si fa acuta:
i frati
non gettano più le caramelle e ritrovano la loro testa
presente,
e io sono l’uomo che sale sulle nuvole –
e nei paesaggi colloca figure:
se la tua mi si sciupa
e tu precipiti, la tua partenza è soprattutto la mia:
la distanza è immobile:
nessuna misura può risolversi
in una tua felicità – le bandiere continuano
a torcersi altissime:
e confondono i colori:
by Edoardo Sanguineti (1930-2010)
viernes, mayo 14, 2010
.jpg)
Javier Marías, "Vite scritte" (1992), tr. it. di Glauco Felici, Torino, Einaudi, 2004, pp. 152-53.
domingo, mayo 09, 2010

miércoles, mayo 05, 2010
domingo, mayo 02, 2010

By Enrique Vila-Matas[1]
Torno a casa dopo un giorno molto stressante durante il quale non ho fatto altro che rispondere e rispondere – sempre la stessa risposta, risposta imparata a memoria, detta in modo meccanico – alle domande dei giornalisti sul futuro del libro a stampa. Ben mi sta, visto che ho scritto un romanzo in cui parlo del passaggio da Gutenberg a Google. Nel corso della giornata mi sono domandato spesso che ne sarebbe stato di Kafka se avesse dovuto rispondere in mille interviste perché raccontò che un giorno Gregor Samsa si ritrovò nel proprio letto trasformato in un mostruoso insetto, con una schiena dura come un guscio e un ventre tondeggiante. Immagino Kafka mentre ascolta sempre la solita domanda:
- E’ lei quell’insetto?
- Come dice, scusi?
C’è stato un momento terribile durante il quale, sicuramente per colpa della stanchezza, mi è sembrato che, invece che chiedermi del destino del libro a stampa, si preoccupassero del futuro dell’insetto. Per fortuna che era l’ultima intervista.
- Per caso lei vede il futuro del libro a stampa come se ormai fosse solo un volgare insetto? – ho chiesto, preoccupato.
Ricordo che a partire da quel momento, contagiato dall’incredibile insistenza delle domande sullo stesso argomento – Gutenberg e Google, e una e un’altra volta, sempre lo stesso tema, partendo e tornando da Google a Gutenberg e da Gutenberg a Google – ho cominciato seriamente a vedere il libro a stampa come se fosse un volgare e ripugnante scarafaggio che finirà per interessare solo accumulatori di carta straccia e sporca, ovvero, gente malata e affetta da quell’orribile variante del mal di Diogene che consiste nell’avere librerie.
Sto tornando felicemente a casa, ormai. Sono a piedi e in questo momento cammino per una strada solitaria, scarsamente illuminata. Se non fosse per il fatto che è vicina a casa mia e che la conosco bene, penserei che è una strada pericolosa. Cammino a fatica e pensando ossessivamente a quanto ho risposto a tutti coloro che mi hanno intervistato: “Non c’è motivo di allarmarsi dell’irruzione del mondo digitale nella letteratura perché tra Gutenberg e Google non c’è rottura ma continuità. Allarmante sarebbe il fatto che sparisse il linguaggio, il pensiero, la narrazione”.
E’ stata particolarmente faticosa la disquisizione dell’ultimo intervistatore perché si è impegnato a farmi notare che non è affatto vero che non esista rottura tra Gutenberg e Google. Basta osservare, mi diceva, come risulti impossibile citare da un libro in formato digitale la pagina in cui si trova la frase che ci ha commosso. Si può, mi spiegava, citare la pagina se il libro è nel formato pdf che riproduce la paginazione del volume a stampa, ma se, al contrario, il testo può essere adattato in quanto a carattere e dimensione delle parole, allora le pagine smettono di esistere ed è tutto unitario, per cui non si può citare, a meno che non si dica: per uno schermo di tot pollici, e con tipo di carattere di tot grandezza e di tot formato, ma ciò sarebbe davvero assurdo…
Non so cosa sia successo, forse è stato quando si sono accumulati tutti i momenti del giorno durante i quali mi hanno chiesto di Gutenberg e Google, di sicuro è che queste parole mi hanno colpito la mente con una certa brutalità, e ora torno a casa non solo stanco, ma anche con la testa chiaramente scossa dalle parole dell’ultimo intervistatore e soprattutto da una di queste, dalla parola – ma non so se arriva a esserlo – pdf.
Pdf è una parola? Sto diventando pazzo? Questa è un’altra bella domanda. Non so se, una volta arrivato a casa, potrò prendere sonno. Mi gira tutto, come se le scosse provenissero da una trottola che fosse a tratti pungiglione e a tratti un mostruoso insetto e che, per di più, questo insetto fosse il futuro del libro. Qualcosa mi suggerisce qui dentro – nella testa, ripetutamente scossa e prossima ad esplodere -, che in realtà la produzione e distribuzione di libri emigrerà poco a poco verso il cyberspazio e che lo schermo rimpiazzerà la parola scritta su carta e che ci sarà rottura, per quanto io possa credere e dire il contrario. Sono sfatto. Mi sento – scusate la parola – molto pdf. Certo che ci sarà rottura. Potrebbe succedere questo. Ma la cosa peggiore è che ancora non sono arrivato a casa e ormai non vedo altro che scarafaggi che sembrano mediocri attori comici in un grande dramma molto serio. Il dramma è mio. E io sono lo scarafaggio principale.
- Perché dice di essere un mostruoso insetto, con la schiena dura come un guscio e un ventre tondeggiante? – immagino mi chieda uno sconosciuto prima di girare l’angolo che si trova vicino casa.
Sono in pericolo? Lo è a maggior ragione il libro a stampa? Ho paura di qualcosa?
- Crede che i libri a stampa scompariranno e andremo verso un mondo completamente digitale? – immagino mi chieda l’accompagnatore dello sconosciuto.
E’ come se fossero gli ultimi due intervistatori del giorno. Mi gira la testa. Se almeno avessi paura. Solo che adesso la strada mi sembra perfino illuminata. Sono morto per colpa del problema tra Gutenberg e Google? La strada mi sembra sempre più luminosa, come se fossi entrato in un altro mondo. Luce dell’al di là.
- Per oggi non rispondo ad altre domande – dico. - Come direbbe Shakespeare, Gutenberg è Gutenberg e Google è Google. Chiaro? E ora scusatemi, ma sono proprio pdf.
Giro l’angolo e mi lascio dietro gli intervistatori e, quando sto per entrare a casa, vedo che sulle mie chiavi è scritto il futuro del libro. E’ così terribile ciò che leggo sulle mie chiavi che non so se è meglio tacere. A partire da ora, se qualcun altro torna a chiedermi del futuro del libro a stampa, manterrò un pietoso silenzio, come un morto. Non è piacevole sapere che neppure Google sopravvivrà e che al di là dell’era digitale ci aspetta il terribile Eyjafjallajökull, il centro di Difuclyatd, lì dove si sente il costante e inconfondibile gluglù di uno scarico.
[1] Frammento letterario: “Más allá de Gutenberg”, di Enrique Vila-Matas, apparso su El País del 24/04/2010. La trad. è mia, la simpatica foto dell'autore proviene dal sito internet:www.enriquevilamatas.com
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