domingo, mayo 09, 2010

Sulla morte: Proust e l'arte come ancora di salvezza.


C'è poi tutta quella storia sulla morte...la morte e l'arte...la morte di Bergotte (alias: Anatole France), una delle parti più toccanti e, allo stesso tempo, più filosoficamente dense della Recherche, perché è lì, è proprio in questi brani, che Proust si ferma a riflettere sull'arte (o inizia a riflettere sull'arte in quanto ancora di salvezza, e possibilità di travalicare i secoli, di sorpassare la morte fisica delle persone, in quanto unico strumento che l'uomo possiede per eternizzare quanto prodotto con la forza della propria immaginazione, dello stile, di quello che siamo in grado di creare in modo artistico a partire dagli oggetti reali che ci circondano)...
Sono ormai mesi che ho letto quel brano e, di fatto, non ne ricordo tutti i dettagli, ma con Proust è così: la scrittura proustiana produce degli echi che risuonano nell'animo del lettore a distanza di giorni, mesi, forse anni. Una determinata scena rimane impressa nella memoria e anche se non si ricorda tutto si può ricordare perfettamente l'aria (e l'aura) di un personaggio, il modo di parlare di quell'individuo che sembrava comparsa e invece non lo è, di quel particolare avvenimento tragico o luttuoso. Come la morte di Bergotte.
Siamo nel bel mezzo del volume dedicato ad Albertine, il grande amore di Marcel (La prigioniera, che è una specie d'incubo ad occhi aperti, una radiografia di quel sentimento onnipotente che chiamiamo “amore” e di quell'incubo quotidiano a esso intimamente connesso che definiamo “gelosia” - una sorta di fenomenologia dell'amore e della gelosia in quanto “ossessioni” portanti dell'essere umano). E il Narratore si sorprende quando viene a sapere la notizia della morte di quello che è stato uno dei suoi scrittori preferiti, letti sin dalla prima giovinezza. Bergotte si era ammalato, negli ultimi tempi soffriva d'insonnia, le medicine che gli vengono prescritte dai vari dottori non fanno che peggiorare la situazione. Poi, ad un tratto, Bergotte si accorge di un particolare cui non aveva mai prestato attenzione: un pezzo di muro giallo dipinto all'interno del famoso quadro Veduta di Delft, di Veermer (il pittore e il quadro preferiti di Proust). E allora Bergotte approfitta della mostra che stanno organizzando a Parigi proprio sui pittori fiamminghi per andare a vedere quel dettaglio che gli era sfuggito. Va al museo, infagottato nel suo cappotto (si suppone faccia freddo, ma non ricordo se è Giugno o Maggio, se fa caldo o freddo, e in quale stagione muoia davvero Bergotte), e contempla il quadro di Veermer, e nel contemplarlo riflette sulla propria arte, sul suo modo di scrivere, si domanda se non abbia sbagliato tutto nella vita, se non avesse dovuto cambiare stile, migliorarsi, riempire le frasi di echi più pregnanti, e scrivere con stile più evocativo, meno piano e diretto. Poi ha un attacco di tosse. Si sente male. Ma pensa che sia un attacco passeggero (forse le patate non abbastanza cotte). Cade. E il Narratore ci descrive la caduta del suo scrittore preferito come se fosse uno dei tanti testimoni oculari:
Un nuovo colpo l'abbattè, dal divano rotolò per terra, facendo accorrere tutti i visitatori e i guardiani” (p. 587 del vol. III dell'ed. Meridiani Mondadori a cura di Luciano De Maria).
C'è un che di ridicolo nella morte dello scrittore, qualcosa che ricorda vagamente una scentta comica dei film muti di Buster Keaton o di Charlie Chaplin. E a metà tra la tragedia e la commedia sono pure le successive impressioni del Narratore, che scrive con stile filosofico:
Era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo? Certo, le esperienze spiritiche non forniscono – non più dei dogmi religiosi – alcuna prova che l'anima sussista. Quello che si può dire è che tutto, nella nostra vita, avviene come se vi fossimo entrati con un fardello di obblighi contratti in una vita anteriore; non vi è nessuna ragione, nelle nostre condizioni di vita su questa terra, perché ci sentiamo obbligati a fare il bene, a essere delicati o anche soltanto educati, né perché un artista ateo si senta obbligato a ricominciare venti volte qualcosa che susciterà un'ammirazione così poco importante per il suo corpo divorato dai vermi, come il lembo di muro giallo dipinto con tanta sapienza e raffinatezza da un artista per sempre ignoto, identificato appena sotto il nome di Veermer. Tutti questi obblighi, che non trovano sanzione nella vita presente, sembrano appartenere a un mondo diverso, fondato sulla bontà, lo scrupolo, il sacrificio, un mondo totalmente diverso da questo, e dal quale usciamo per nascere a questa terra prima forse di tornarvi a rivivere sotto il dominio di quelle leggi sconosciute cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l'insegnamento dentro di noi senza sapere chi ve le avesse tracciate – quelle leggi cui ci avvicina ogni lavoro profondo dell'intelligenza e che rimangono invisibili soltanto (e chissà, poi?) agli sciocchi. Così, l'idea che Bergotte non fosse morto per sempre non ha il carattere dell'inverosimiglianza. Lo seppellirono, ma per tutta la notte prima dei funerali, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui che non era più, un simbolo di resurrezione” (id., pp. 587-88).
Proust non è un filosofo di professione; è uno scrittore e, come tutti gli scrittori, pensa per immagini. Questo brano, oggettivamente denso, sembra complicato perché evoca una serie di immagini che scatenano una serie di concetti che aprono a una serie di interpretazioni diverse sullo stesso fenomeno: la morte fisica (il corpo divorato dai vermi), a cui si contrappone, però, la vita “eterna” che l'arte sembra regalare a chi ha saputo plasmarla in un quadro (o in una partitura musicale o in un libro – qui simbolizzata da un angelo che dispiega le ali protettrici).
Che senso ha prodigarsi tanto, faticare così duramente, sforzarsi di scrivere bene, di praticare il bello e il buono, quando le condizioni di vita che ci influenzano su questa terra sono tanto contrarie al bello, al buono, perfino alla buona educazione? Chi ci ha inculcato il culto del lavoro profondo dell'intelligenza? Quale Dio ha avuto l'idea di imprimere nel nostro animo il senso del dovere e la spinta verso il bello? Perché possiamo dire che, in un certo senso, Bergotte non è morto (o non è inverosimile pensarlo “ancora vivo” nonostante i vermi abbiamo già iniziato a corrompere il suo corpo)? Trovo una risposta logica e plausibile solo a quest'ultima domanda: Bergotte vive perché esistono i suoi romanzi (quei libri esposti in vetrina e che, disposti a tre a tre, ancora ci parlano di lui). L'arte, sembra suggerire Proust, è l'unico strumento di salvezza dalla morte, l'unica resurrezione possibile per l'uomo mortale. Ogni volta che qualcuno tornerà a domandarsi che ci facesse quel lembo di muro giallo nel quadro di Veermer, ogni volta che qualcuno tornerà a leggere i libri di Anatole France (ogni volta che qualcuno prenderà in mano uno dei tomi della Recherche, senza farsi intimorire dalla vastità e dalla complessità dell'impresa), sia Veermer che France (che Marcel Proust) torneranno a vivere (nella mente dello spettatore o del lettore dedito a seguire il loro stesso sforzo d'artista, il loro stesso “lavoro profondo dell'intelligenza”).
I libri: presentati, nell'ultima frase, come “angeli custodi” che, per il morto, sembrano incarnare il simbolo della resurrezione. Eppure, Proust scrive questo brano come se stesse ricoprendo il ruolo del filosofo alla Schopenhauer (o alla Unamuno): un filosofo disilluso, deluso dalla vita, dinsingannato, e che non crede più nemmeno alle amare verità cui lo conduce la sua stessa filosofia. Sembra ancora dubitare. Sembra scettico, anche quando ci presenta i libri come fari che “illuminano” il cammino del morto (o la vetrina della libreria). La Recherche è il libro che lo scrittore in potenza sta tentando di scrivere quando ancora dubita che riuscirà a portarlo a termine. E' il viaggio di colui che ancora non sa che riuscirà a includere nella scrittura tutto quanto ricorda e pensa. E la morte di Bergotte sembra essere uno di quei momenti di crisi in cui, anche se si è circondati dagli “angeli”, non si sa bene e come e quando si riuscirà ad arrivare alla fine (a una qualche conclusione). L'arte salva ed eternizza la voce dei morti. Il punto è che qui Proust (attraverso la voce del Narratore) sembra proiettare su un piano futuro (e tramite la maschera di Bergotte) - sembra prevedere con “gli occhi della mente” - quella stessa morte che l'attende (e che, una volta sopravvenuta, non gli permetterà più di terminare la Recherche). Bergotte muore, ma è come se in questi brani Proust stesse facendo le prove per quell'ultimo atto che determinerà inevitabilmente anche la fine della sua opera. In questo brano, anche se solo per speculum et in aenigmate, il lettore si accorge di un fatto umanissimo: Proust ha paura della morte e dubita (per un momento) che l'arte possa davvero salvarlo. Quel dettaglio, poi, quel lembo di muro giallo, diventa un particolare assurdo: non sappiamo se esista davvero dentro il quadro di Veermer; e pure se dovesse esserci, è ridicolo alzarsi dal letto per andare al museo a contemplarlo, nello stato in cui si trova Bergotte. Quel dettaglio, il culto per il particolare (“Dio si nasconde nei dettagli”, diceva Flaubert, se non erro), il culto per l'arte che è fatta solo di particolari, serve anche come “spunto ironico” per riflettere su un certo tipo di scrittura che, in nome del particolare stesso, rischia di smarrire l'universale (quanto non farà mai Proust all'interno del suo romanzo-infinito). Ecco perché Bergotte crolla in quel modo un po' ridicolo e silenziosamente buffo, all'interno del museo, e davanti alla Veduta di Delft.

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