domingo, mayo 23, 2010

Jean-Luc Godard e l'inquadratura (una quesione estetico-politica)


Ci sono dei libri i cui titoli esercitano sul lettore una forza tale d’attrazione per cui diventa poi impossibile non prenderli e vedere di cosa parlano. Ultimamente mi è capitato con un saggio di Jean-Luc Godard, dal titolo (curioso e, al contempo, ambizioso, fors’anche pretenzioso): Introduzione alla vera storia del cinema (Roma, Riuniti, 1982) (dove l’aggettivo “vera” pone domande non meno serie del sintagma “storia del cinema”, visto colui che scrive).

Si tratta, in realtà, di una specie di saggio ricavato dalle lezioni che Gordard tenne presso l’Università di Montréal nel 1978. L’idea era parlare della storia del cinema studiando quei registi e quei film che maggiormente avevano colpito e influenzato uno dei cosiddetti “padri” della Nouvelle Vague francese. In pratica, più che di un saggio strutturato in capitoli, si tratta della sbobinatura delle conversazioni (più che delle lezioni, in senso stretto) che Godard fece davanti a un pubblico di studenti di Cinema. Ed è per questo che la lettura mi è sembrata amena, scorrevole e, a tratti, esilarante (con tutti quei puntini di sospensione e quelle ripetizioni e quei tentennamenti da parte del “conferenziere”).

Godard è un tipo difficile: ci sono intere schiere di ammiratori cinefili che lo osannano e che pendono dalle sue labbra; così come esiste un folto esercito di spettatori che non lo sopporta e lo considera uno strafottente, borioso e vanaglorioso maître à penser. Ebbene, entrambe le caratteristiche o tratti caratteriali vengono fuori dalla lettura di questa “vera storia del cinema” godardiana.
Sono davvero tanti gli spunti di riflessione. Ne seguo e ne cito uno soltanto: il significato dell’inquadratura (termine tecnico del linguaggio cinematografico che, per slittamento semantico, è entrato a far parte anche del linguaggio comune).

(p. 25): “Oggi, non so neanche più cosa sia un’inquadratura. In questi ultimi anni ho ripreso delle cartoline, e questo mi ha fatto ripensare ai quadri. E difatti perché il quadro è diventato quadrato, o un po’ rettangolare, e non rotondo? E perché per registrare questo quadrato bisogna passare attraverso degli obiettivi che, invece, sono rotondi? Mettiamo per esempio una telecamera che vi riprende, voi che parlate e io che rispondo, o il contrario; a quel punto ci si chiede: “Se si dovesse inquadrare quel che succede, come bisognerebbe fare? Bisognerebbe mettere la telecamera lì, e poi inquadrare tutto insieme? Bisognerebbe fare un primo piano vostro? O un primo piano mio? O cosa?”. Dunque, bisogna sapere quel che si vuole, per decidere. A quel punto uno avrebbe un’idea di come può essere un’inquadratura e a cosa possa servire. E allora si penserebbe a quel che in francese si dice “un cadre de vie”; ci sono quelli che vengono inquadrati; e, generalmente, quelli che dirigono, vengono chiamati “i quadri”…”

Non ci avevo mai pensato: l’obiettivo della macchina da presa è rotondo, mentre lo schermo è sempre rettangolare (così come, in pittura, la cornice predominante non è quella tonda o ovale, ma quella quadrata o rettangolare).

Ma andiamo avanti: anche noi, anche senza rendercene conto, “siamo inquadrati”, tutti i giorni, anche nella nostra vita quotidiana. Come? Ecco la risposta:

(p. 181): “In che quadro ci troviamo? Tu entri in casa: hai almeno una finestra in casa tua, questo è già un quadro. Anche la porta. Poi c'è la tavola che è quadrata, il letto che è quadrato...Per forza quindi ti trovi inquadrato. Il modo stesso in cui ci accostiamo all'embriologia, o alla nascita, o al codice genetico, sono tutti quadri di una data forma. A volte è un bene che il quadro sia rigido, altre volte lo è meno”.

Uhmm…neanche a questo avevo mai pensato…Eppure, queste osservazioni hanno delle conseguenze enormi, se, appunto, e come fa Godard, ci accostiamo alla storia del cinema (al modo in cui l’uomo, da quando i fratelli Lumiére hanno scoperto il cinema, ha imparato ad inquadrare ciò che vede intorno a sé):

(p. 191): “Quello che conta allora sono i limiti; perché è solo grazie ai limiti che noi possiamo conoscere il nostro desiderio di non-limiti, sia un senso che nell'altro; e conoscere la realtà. Quindi la cornice, il quadro. E' questo ciò che conta. Nella realtà tutto è inquadrato. E che una cosa sia inquadrata in tondo oppure in quadro dipende dal fatto che anche l'immagine è una cosa della vita, e che rappresentare è appunto un modo d'inquadrare. Del resto anche noi abbiamo qualcosa che c'inquadra anche fisicamente, ed è ciò che chiamiamo il nostro corpo. E poi dopo c'è anche il quadro sociale, e c'è il problema dell'inquadratura o dell'angolazione da cui prendi l'inquadratura, che è pure una cosa interessantissima”.

Da qui Godard riflette sulle diverse tecniche d’inquadratura adottate da Ejzenstejn, per il cinema russo, e da Griffith, per quanto concerne il cinema americano (essendo stato il primo l’inventore del cosiddetto “montaggio” – o arte di collegare due o più inquadrature; e il secondo l’inventore del cosiddetto “primo piano” – o arte di valorizzare l’espressione del volto del divo).

Mi fermo qui, questo post è anche troppo lungo (e forse noioso per chi non s’intende o non s’appasiona di cose di cinema).

Godard doveva presentare di persona il suo ultimo film al Festival di Cannes, ma alla fine ha dato buca, lasciando le schiere (contrapposte) di cui sopra con l’amaro in bocca. Qui sotto il trailer (il film s’intitola – in perfetto stile godardiano – “Film Socialisme”):

http://www.youtube.com/watch?v=FN27Hhfkf6k

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