domingo, octubre 28, 2007

Diario di Lecce





(that's to say: if you like it, do it!)


23/10/07 ore 19,50

Sto partendo per Lecce per partecipare a un convegno sul tempo. Salgo al secondo piano del pullman che mi porterà alla fermata di Viale Ugo Foscolo e mi accorgo subito di una cosa: che quando ti siedi in un posto al secondo piano di un pullman sembra come se a guidare non ci fosse nessuno. Come se il pullman (col parabrezza libero e i primi posti sprovvisti di volante) ti portasse da solo dove vuole lui (e a te non resta che sperare che non si schianti contro qualche muro o albero).

Ai lati della strada sfrecciano luci rosse e gialle. Intravedo l'interno illuminato di qualche casa o palazzina poco distante dall'autostrada. E il fatto che ci siano luci accese dà conforto: vuol dire che c'è ancora vita in giro, da qualche parte, anche se tu, che sei in autostrada, non sapresti individuare nè il posto nè il nome del posto in questione.

24/10/07, ore 17,30

Sono venuto a Lecce per motivi di studio e mi accorgo di avere sbagliato abito: qui non fa così freddo come a Pisa o a Firenze. E soprattutto, qui nessuno va in giro con un completo nero e un cappotto nero invernale e un paio di Nike rigorosamente nere ai piedi. Passeggio tra la centralissima e trafficata Via Templari e Via Umberto I e mi sento a disagio, come fossi un maniaco o un ladro in incognito.

A Lecce fa davvero caldo e per provare a scaricare lo stress che mi produce tanto sudore sulla fronte mi fumo una sigaretta seduto davanti ai resti dell'Anfiteatro Romano. Siamo a Piazza Sant'Oronzo, tra le più famose della città. Intere famiglie consumano il loro pranzo tra i tavolini del McDonald; i vecchi chiacchierano davanti ai giornali. Provo a chiedere a tre tipi appoggiati a un palo accanto a un taxi quanto costa la corsa da lì a Viale Ugo Foscolo (la fermata da cui ripartirò per tornare a Pisa). I tre smettono di parlare e con tutta calma mi consigliano d'indirizzarmi a quei due signori laggiù. Sono loro quelli che guidano il taxi. Così, rosso in viso per la vergogna, mi rivolgo ai due signori, ma neppure questi sono i tassisti. Chiedo scusa e seguo le loro indicazioni: i due che m'interessano stanno dentro - e non fuori - del taxi. Che stiano per caso complottando alle mie spalle? Che tutti quelli cui chiedo informazioni stiano organizzando un piano per impedirmi di tornare a casa?

Alla fine ci rinuncio. Sono tornato a Piazza Santissima Addolorata: è qui che alloggio, per l'esattezza Vico San Giusto. Il mio bed & breakfast è un bilocale a piano terra con bagno minuscolo e piano cottura degno, anche se il resto dei mobili appartiene a un'era che non è più la nostra. Siccome le luci sono tante, ma tutte fioche e site negli angoli più impensati, scrivere o anche solo leggere il giornale diventa un'impresa e così le accendo tutte, compresa quella del bagno (al neon - fastidioso ronzio tipico delle sale d'attesa - ma almeno così ho l'impressione di avere più spazio, come se con le luci accese guadagnassi spazio).

Non so come spiegarlo, ma sembra che a Lecce le case a piano terra diano direttamente sulla strada: la gente non sembra avere problemi o timori a lasciarsi "spiare" o più semplicemente guardare dai passanti che attraversano le strade del centro. Come dirlo: le case, con le loro solite stanze note a tutti, sono tutte ad altezza d'uomo (se sono a piano terra, ovviamente). Qui di fronte, ad esempio: se apro la porta con le persiane in plastica posso vedere una vecchina che cuce a maglia e guarda le telenovelas di Rete4. Più in là c'è un gruppo d'indiani che, forse grazie alla parabolica, guardano un musical o un video con danzatrici del ventre loro connazionali. E tra loro soglia e il selciato non ci sono che pochi centrimetri di distanza (questo sì, questa zona della città, il centro storico, è per la maggior parte pedonale; ci sono poche macchine e quando ci sono diventa complicato farsi da parte, appoggiarsi al muro, e lasciarle passare).

Le case sono bianche per via del caldo. Immagino che qui d'estate si soffochi. E che i leccesi abbiano visto la neve rare volte.

Un'altra cosa che colpisce di questa città è la presenza massiccia e discreta di negozi d'antiquariato e di prodotti artigianali. Dalle collane ai braccialetti, dalle borse alle maschere di cartapesta ai prodotti in ceramica o terracotta, dalle librerie dell'usato ai quadri alle cornici, dalle stoffe più pregiate ai prodotti tipici della cucina salentina, qui il turista curioso e appassionato d'artigianato può trovare di tutto. Le persone sembrano concentrate nel loro lavoro. E se entri a curiosare o a chiedere un'informazione te la danno con una gentilezza estrema.

A Lecce si respire tranquillità e aria di mare (anche se il mare è distante e da qui non si vede). Vago tra i vicoli stretti del centro e ascolto il rintocco delle campane: qui è pieno di chiese che ci tengono a ricordarci che un'altra ora è trascorsa e che siamo anche noi, ahinoi, mortali.

25/10/07 ore 8,45

Salgo sul pullman che ci porterà da Lecce a Cavallino (il luogo degli incontri del convegno). E' stracolmo di docenti. Luminari della scienza; baroni; grandi saggi dell'Accademia italiana.

A un certo punto mi si siede vicino un signore dall'aria distinta e gli occhiali con la montatura di tartaruga. Ha in mano un libro di Enrique Vila-Matas. Ci getto l'occhio e lui si accorge che sto leggendo il titolo del romanzo di Vila-Matas.

"E' un autore che non conoscevo: sa, mi hanno chiamato a far parte della commissione che dovrà giudicare la tesi di una ragazza che ha scritto 500 pagine su questo qui". E io.

"E' uno dei miei scrittori preferiti. E' pazzo. Mescola citazioni reali a citazioni inventate. Fa impazzire anche i suoi traduttori".

L'anziano signore distinto ride:

"Eh sì! Io devo andare lì a certificare se è postmoderno o meno. Secondo me lo è". E io:

"Oh, sì, ma certo che lo è, non ci sono dubbi. Postmodernismo allo stato puro. Un grande ironico, questo Vila-Matas".

Solo quando entro nella sede del convegno e sento le presentazioni dei partecipanti mi accorgo di aver parlato di Vila-Matas e di postmodernismo con Remo Ceserani. Che sul postmodernismo ha scritto qualche tempo fa Raccontare il postmoderno. Rosso in viso, alla pausa caffè, mi sono presentato chiedendo venia per la piccola gaffe. Il prof. Ceserani ride. Quale gaffe? Non ero certo tenuto a riconoscerlo dalla faccia! Poi lo ringrazio perchè in quel suo libro di qualche tempo fa citò due cose a me molto care: il luogo tra i monti abruzzesi in cui sono nato e un autore sottovalutato e misconosciuto come Tiziano Sclavi. Ride ancora e poi se ne va, parlando coi colleghi, e giovani promesse dell'Accademia italiana.

26/10/07 ore 2,12

Sono già 5 ore che siamo in viaggio. Ci siamo fermati all'autogrill per una sosta. Mi sgranchisco le gambe e mangio una mela. Una bionda molto carina ma dal culo enorme (e degli orrendi stivaletti rossi ai piedi) chiacchiera d'amore con un ragazzo ingelatinato. Si nota che sono amici e che si vogliono bene e che si conoscono da una vita. Io non conosco nessuno dei viaggiatori e avrei voglia di chiamare mia madre. O Alyssa. O mio fratello. Ma è tardi, stanno dormendo. Non posso disturbarli a quest'ora. E poi farei loro prendere uno spavento. Non è il caso. Accendo la luce del mio posto al secondo piano e leggo queste frasi da La pelle di zigrino di Balzac (e mi ci riconosco molto):

"E io, debole, gracile, così modestamente vestito, pallido e smunto come un artista appena convalescente dalla sua ultima opera, come potevo competere con dei graziosi giovanotti, arricciati, agghindati, incravattati da indurre la Croazia alla disperazione, ricchi, armati di Tilbury e rivestiti d'impertinenza?"

Già: come posso io competere?
















1 comentario:

  1. Non è detto che la competizione debba avvenire con le stesse armi. L'importante è essere armati, tutto il resto viene da sè. Da queste parti si dice "bali düri!!!".

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