viernes, junio 29, 2007

Ancora sul tempo

[Avviso alle due o tre lettrici che ancora mi sopportano: siete pregate di “oltrepassare” questo post se ne avete abbastanza di pseudo-indagini filosofiche sull’enigma del tempo; rischiate d’addormentarvi dinanzi allo schermo del pc; donna avvisata mezza salvata].

Apro a caso uno dei libri che ho sul comodino (Alberto Moravia, L’uomo che guarda, Milano, Bompiani, 1985 – all’epoca avevo sì e no 8 anni) e leggo:

“Ore sei e trenta. Dormo poco, non più di sei ore per notte e, appena mi sveglio, dedico cinque, dieci minuti a quella rara occupazione che va sotto il nome di pensiero. A che cosa penso? A dirlo così può persino parere ridicolo: alla fine del mondo. Non so quando e in che modo è cominciata quest’abitudine; forse non tampo tempo fa, in seguito alla lettura di un libro che per caso ho trovato sulla scrivania di mio padre che è professore di fisica all’università, un libro tra i tanti sulla guerra nucleare. Oppure sarà stato un altro motivo venuto da chissà dove e poi scomparso dalla mia memoria, come scompare il seme una volta che la pianta è cresciuta. D’altra parte è improprio dire che penso alla guerra nucleare. Semmai penso all’impossibilità di pensarci. Ma è fuori dubbio che in quei cinque, dieci minuti dopo il risveglio non penso ad altro”.

Ebbene, ora, io mi sento molto “rappresentato” da un personaggio che si esprime in questi termini: l’unica differenza è che io quando mi sveglio (dopo ore passate a sopportare l’insonnia) non penso alla guerra nucleare, ma al tempo. Ci sono tre figure, o rappresentazioni del tempo, che mi tormentano, e tutte e tre devono (sì: DEVONO) avere un qualche legame tra loro, anche se a me sfugge. Stamattina, per esempio: ne ho discusso per due ore e mezzo con Giulia e non siamo arrivati ancora a una soluzione parziale o accettabile del problema. Ecco le tre figure:

1-la schiena;
2-la ruota;
3-il filo.

Partiamo dal punto 1: Negra espalda del tiempo, uno dei romanzi più belli e complicati dell’autore spagnolo Javier Marías (un matto geniale) deve il suo titolo a un verso di Shakespeare; il verso è tratto da un dramma, uno degli ultimi scritti dal Bardo di Strapford-Upon-Avon, The Tempest: “the dark backward and abyss of time”, traducibile con: “la nera schiena e l’abisso del tempo”. Marías confessa di essere rimasto affascinato da questa espressione proprio perché, se ci fermiamo al significante, si capisce, ma se scaviamo dal lato del significato, diventa assolutamente misteriosa: che cos’è la “nera schiena” del tempo? Perché è nera? Perché c’è di mezzo anche la parola “abisso”? Ora, Marías arriva a Shakespeare passando da un articolo molto bello e suggestivo di un suo amico e maestro letterario, l’ingegnere Juan Benet (ingegnere-scrittore, per l’esattezza: come quell’altro pazzo di Carlo Emilio Gadda, “the Pasticciaccio’s”). Secondo Benet Shakespeare è riuscito in un solo verso a mostrarci qualcosa che tutti sappiamo (e applichiamo sul piano del reale, quando si tratta di “spazializzare” il tempo) ma che tutti ignoriamo, se non ci fermiamo a riflettere: con questi versi l’autore di Hamlet sarebbe riuscito a sintetizzare la contrapposizione sia spaziale che linguistica tra il PASSATO, incarnato nella SCHIENA (e tutto ciò che ci lasciamo DIETRO, alle spalle), e il FUTURO, incarnato nel VOLTO (e tutto ciò che abbiamo DAVANTI, l’orizzonte che ci si presenta di fronte). Insomma, è qui evocata la dicotomia tra PASSATO-FUTURO su cui si basano tutte (o quasi) le lingue indoeropee per costruire le coniugazioni dei tempi verbali (tra passato e futuro, il perno è il presente; è dal presente che calcolo se io, stamate, “ho letto”, oppure, se tra poco, stasera, “leggerò” un libro – complemento oggetto).

Ma continuiamo con il punto 2: che il tempo gira, che è una ruota, lo si sapeva già dal Medioevo (e forse anche prima): icastica, in tal senso, la RUOTA DELLA FORTUNA che, con i suoi movimenti repentini e gli alti e i bassi, sconvolge la vita degli umani – portando un povero a governare un intero regno o un re a perdere la corona e finire col fare il mendicante, barbone dimenticato da tutti. Alla RUOTA, e a una visione “circolare” del tempo, si è soliti contrapporre (vedi Nietzsche?) l’immagine del tempo come FRECCIA, una linea che, posto un punto A, attraversa un certo cammino per raggiungere un punto B e fermarsi (per sempre?). Tempo lineare versus tempo circolare. A Eraclito (che diceva che “tutto scorre”) segue Nietzsche (che dice che “niente passa”, che è tutto un “eterno ritorno”).

Concludiamo (si fa per dire) con il punto 3: Marías, in Nera schiena del tempo, fa esplicito riferimento all’immagine di Shakespeare; in un altro articolo, precedente di due anni la pubblicazione del romanzo, cita invece Jorge Manrique, uno di quelli che ha evocato nei suoi versi l’immagine della ruota della Fortuna. Marías complica ulteriormente le cose aggiungendo alla ruota e alla schiena l’immagine del filo: “il filo della continuità”, quello che, se non vado errato, consente la comunicazione tra VIVI e MORTI, tra PASSATO e PRESENTE e che funge da ponte metaforico tra i due tempi.

La domanda è: in che modo, in che senso, attraverso quali arcani legami, possiamo unire le tre immagini-spazializzazioni del tempo, presenti in questo autore, ma evidentemente rinvenibili in tanta parte della letteratura occidentale (oltre che, immagino, della religione, della filosofia, della saggistica “nostrana” – europea e occidentale)?

Risposta: non ho idea. E continuo a vagare tra i fili e le ruote e le schiene…

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