
lunes, diciembre 24, 2007

jueves, diciembre 20, 2007

le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli
martes, diciembre 11, 2007

viernes, diciembre 07, 2007
Causa un fastidiosissimo ascesso a un dente curato male, mi sono ritrovato bloccato a casa e ho avuto modo di inabissarmi nel vuoto televisivo. Che la televisione sia ridotta male in quanto a contenuti è cosa palese e risaputa; che in televisione si parlasse così tanto dei cosiddetti "giovani" mi ha colpito parecchio. Sembra che all'origine ci sia il delitto di Perugia (una studentessa inglese violentata e ammazzata da non si sa chi; studentessa, quindi giovane, quindi universitaria; come per Cogne, a Bruno Vespa non deve essergli parso vero avere la possibilità di farci sù tante puntate ricche di suspense e di interviste ai sospettati). Com'è possibile un delitto simile? Come mai a Perugia, città tranquilla e universitaria, e perciò piena di ragazzi? Da qui una sfilza di giornalisti (o pseudo-tali) pronti, col microfono in mano, a indagare nella vita privata degli universitari tra i 19 e i 26 anni.
Umberto Galimberti, il filosofo, l'ha detto almeno due volte: una sera, a notte tarda, da Bruno Vespa (ma va?); l'altra sera, a notte media, al Maurizio Costanzo Show. I giovani di oggi si ritrovano demotivati e incapaci a vivere in modo sano le emozioni perchè sono finiti in una società del benessere che sta per eliminare lo "stato sociale" (niente più pensioni, in futuro, se non apri un tuo fondo pensionistico a parte) e che non fa che spingere l'acceleratore sul pedale del consumismo e del capitalismo fini a sè stessi (per cui io sono non per quello che valgo - moralmente, soggettivamente - ma per quello che posseggo o posso comprarmi).
Posso essere d'accordo: la precarietà è davvero il male sociale di questi giorni. Vent'anni (o forse trent'anni) fa, a 18 anni, chi non aveva voglia di studiare si cercava un "posto fisso" e si costruiva una famiglia o una casa o tutte e due le cose insieme. Oggi bisogna: 1-laurearsi; 2-dottorarsi o fare un master; 3-trovarsi un lavoretto part-time di fortuna e poi, forse, chissà, a 30 o 35 anni ci si può davvero "independizar" (come dicono gli spagnoli) e vivere delle proprie forze (lontano dalla condizione di eterni figli; lontano dai propri genitori). Ma ci siamo chiesti davvero chi è il vero responsabile di una situazione simile? Ci siamo chiesti davvero perchè un dottorato deve finire con l'accettare anche un lavoro come cameriere a trent'anni o come dipendente call-center se non trova sbocco nell'ambito della ricerca? E perchè tanti ricercatori sono obbligati ad emigrare all'estero? E perchè tanti "masterizzati" sono costretti allo stage presso l'azienda prima che questa si decida a dargli un contratto vero (e non temporaneo e non part-time)?
Sembre Galimberti nota: "Una società che non sfrutta il potenziale dei giovani è una società destinata al declino". Non si può non sfruttare un ragazzo che, prima dei 30 anni e non dopo, è nella fase della sua maggiore forza creativa, sessuale, progettuale, fisica. E' come se in passato avessero dato il pallone a Pelè a 18 anni (e non prima). Verissimo. Ma ripeto: quali sono le cause che (mi) impediscono d'entrare davvero nel mondo del lavoro e di esprimermi al meglio (d'esprimere al massimo grado le mie potenzialità)?
Beppe Grillo propone da vario tempo di eleggere i politici con contratti co.co.co.: se lavorano bene, vanno avanti; se ci fanno schivo e ci accorgiamo che non rendono (che sono assenteisti; che fanno il proprio porco comodo), li mandiamo a casa (o a zappare la terra). Che c'entri la politica? Non c'è dubbio (in Spagna Zapatero vuol dare un aiuto economico di non mi ricordo più se 200 o 400 euro ha chi, essendo giovane, guadagna poco e vuol andare a vivere in affitto da solo). Che c'entri anche il fatto che in Italia gli avvocati, i notai, i professori, i medici che più guadagnano e che sono più rinomati sono persone che ormai rasentano la settantina? Perchè all'estero anche chi fa politica ha un'età media molto più bassa rispetto all'Italia (paese meraviglioso, non c'è che dire, ma anche paese anomolo, in cui un settantenne, un vecchietto, diciamo, come Berlusconi può sciogliere un vecchio partito, per fondarne uno nuovo di zecca - il Popolo delle Libertà, lui che parla di libertà, poi, davvero comico)? E perchè sempre all'estero, mettiamo in Germania, ci sono ingegneri che cambiano lavoro anche due volte l'anno senza mai perdere potere d'acquisto, offrendo le loro capacità all'azienda che paga meglio, mentre qui, da noi, a Roma, esistono ingegneri aerospaziali (come un mio amico) che hanno trovato il "posto" dopo uno stage e guadagnano 1200 euro (come se fare l'ingegnere aerospaziale fosse un lavoro simile all'impiegato statale)?
Tornando ai giovani: in una società in cui il potere è avidamente in mano agli adulti (ma da noi potremmo dire anche: ai vecchi), e in cui non c'è vero dialogo e scambio generazionale (per cui gli adulti guardano al mondo dei giovani come un mondo di alieni; e viceversa questi guardano ai loro padri come a degli avidi "poltronisti") si corre davvero il pericolo di non parlarsi più, di non scambiarsi più esperienze, di non crescere.
Mio nonno mi ha insegnato a riparare una camera d'aria di bicicletta; io potrei insegnare lo stesso (e anche di più) a mio figlio, avessi i soldi per mantenermi una famiglia e metterlo al mondo.
martes, noviembre 27, 2007
lunes, noviembre 26, 2007
(Madrid – 22 de Noviembre de 2007, horas: 14,32)
Quando vado a Madrid trovo appoggio costante e generoso da Ambra e Veronica. Sempre. Indefettibilmente. Non si risparmiano mai.
Ambra è nata a Firenze, ma ha i parenti a Soresina (un paese a 80 km da Milano), anche se ormai vive in Spagna da 15 anni. Quindi, si può dire che ormai è più spagnola che italiana (Ambra di anni ne ha 24, compiuti da poco).
Veronica, invece, è argentina. Viene da Buenos Aires, ma ha vissuto per due anni a Rio de Janeiro. Dopo l’esperienza brasiliana (compiuta tra i 18 e i 20 anni) si è trasferita nella capitale del Regno. Ha 28 anni, anche se non li dimostra, e i capelli neri e gli occhi scuri e la carnagione mulatta (ottime curve, su un corpo piccolino, ma si sa, la donna bassa riserva sorprese…). Ambra è alta e magrolina, ma ha una forza di volontà e un’energia spaventose, se rapportate al suo fisico. Fa la giornalista, lavora in un’agenzia stampa collegata all’Opus Dei (peccato) e si mantiene da sola da quando ha raggiunto la maggiore età. Veronica ha lavorato nel campo della ristorazione e del settore alberghiero: ha fatto la cameriera, la capo-sala, la recepcionist, e poi ancora: la commessa, la bar-man (esiste “bar-woman”?), la pierre in una discoteca del centro (discoteca in cui mi faceva sempre passare senza pagare, con drink costoso incluso nel prezzo).
Con Ambra ho imparato che niente è impossibile se lo si desidera veramente; grazie a Veronica ho imparato a nuotare (ma solo in piscina, ancora non mi sono mai azzardato in mare aperto). Ambra è di quelle persone che sanno ascoltare gli altri e soprattutto di quelle che non si scandalizzano davanti a nulla. Ambra ti ascolta e presta attenzione, dà consigli sensati e non si spaventa o non si sorprende davanti a nessun racconto (per surreale o pazzo possa essere quest’ultimo). Veronica è una “macchina”, una bomba a orologeria: non nel senso che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, no. Nel senso che quando decide di darsi la carica riesce ad andare avanti per ore, senza dormire, lavorando, andando in giro e di festa in festa, di bar in bar, conosce tutti e tutti la lasciano passare col sorriso sulle labbra (le mie migliori sbronze, quelle più divertenti e quelle che si sono prolungate fino all’alba o alle 8 del mattino le devo a Veronica). Non so proprio come faccia, a tenere certi ritmi (non credo faccia uso di droghe pesanti, le canne sì, quelle le abbiamo fumate insieme in più di un’occasione). E non so da chi ha preso Ambra (due genitori splendidi, una madre attenta e simpatica, un padre vispo e dalla mentalità davvero aperta – una volta mi fumai una canna con Francesco, dopo cena, a casa sua, davanti a Federica, la moglie e madre di Ambra; quante risate quella sera, criticando certa politica italiana e rimembrando i primi tempi del trasferimento in Spagna; quante risate e quante acute osservazioni sulla nostra attuale, permamente, situazione di stallo e mancanza d’entusiasmo).
Veronica ha cominciato da poco a lavorare al Corte Inglés (per una marca famosa di moda argentina); Ambra scrive articoli per la sezione “Turismo”. E grazie a questo incarico, ogni tanto viaggia per il mondo. L’altra settimana era a Budapest; tra due settimane sarà in Cina (Singapore e Shangai) per una doppia conferenza stampa (ridendo m’ha chiesto se avrà il tempo di vedere almeno le hall dei due hotel in cui pernotterà).
Veronica e Ambra, due porti sicuri nel mare incerto della caotica Madrid. Ambra e Veronica, due donne intraprendenti e con la testa sulle spalle che ammiro e ammirerò sempre, anche se in futuro dovessero tradire la nostra amicizia o cambiare la loro opinione su di me. Due persone che danno la carica e di cui tanto si ha bisogno quando ci si sente soli e abbattuti, o più semplicemente nostalgici (ancora non metto piede a Pisa – scrivo dall’aeroporto di Barajas – e già sento la nostalgia della mia seconda casa).
martes, noviembre 20, 2007
"E' stato bello, anche se è durato poco". Quante volte pronunciamo questa frase (o ce la diciamo in silenzio tra di noi, a mente aperta e bocca chiusa)? In quante possibili e variabili circostanze?
Mi viene in mente l'atmosfera di distensione paradisiaca che si respira dopo l'amore: "E' stato bello, anche se è durato poco", in questo caso sì che potrebbe suonare ad offesa (l'orgoglio maschile sempre in agguato, ahinoi, maschi irascibili, anche quando non siamo frettolosi, anche quando riusciamo a regalare orgasmi degni di questo nome), se la frase è detta dall'amante o dalla compagna che abbiamo affianco (ma in linea di massima e in generale "l'orgasmo è bello perchè dura poco" - litigarello avrebbe fatto rima, ma quello è l'amore, è un'altra storia...). Oppure, mi viene in mente l'aria di abitudini riconquistate, dopo un viaggio. E allora si accende il computer e si guardano le fotografie scattate a Plaza Colón, o alla Gran Vía di notte (con le sue mille luci accese e scintillanti), o al Paseo del Prado, con la statua di Velázquez a fare la guardia alle stanze (mille e una) del mitico e omonimo museo nazionale... e si dice: "E' stato bello, ma è durato poco, magari potessi tornarci, avere più tempo per visitare anche gli altri posti che non abbiamo visto e che la guida ci raccomandava con tanta eloquenza"). Oppure, quando si rompe un rapporto e allora la frase assume connotati cinici, quasi fratricidi, mi verrebbe da dire: "E' stato bello - anche se è durato poco, o troppo, o tanto - e adesso ognuno per la sua strada, non voglio più che mi chiami, non telefonare più, basta vedersi la sera per andare a mangiare la pizza, ormai è fatta, ormai è finita" e ti prepari ad andare al cinema con un amico, sbiadito solo dopo mesi il ricordo di quando ci andavi con lei e le stringevi la mano o le carezzavi la gamba o le stampavi un bacio dietro l'orecchio e sul collo (due punti cruciali per eccitarla, da farle venire la pelle d'oca). "E' stato bello, peccato debba finire", penso, quando finisco di leggere un romanzo che mi coinvolge e avvince e la trama s'avvia alla conclusione (lo diceva giustamente anche Frank Kermode: "il bello dei romanzi è che devono giungere a un finale", anche quando questo venga ritardato - sorta di "orgasmo ritardato", in questo caso, o coitus interruptus ad infinitum). "E' stato bello", dico ad Antonio Escudero, vecchio saggio e amico della Biblioteca Nacional, incontrato per caso davanti alla macchinetta automatica che distribuisce caffè e cappuccini che ricordano solo vagamente ciò che in Italia definiremmo come un caffè e un cappuccino... Mi spiega che ultimamente la gente ha perso l'entusiasmo. Che in giro si respira un'aria cattiva, di disfattismo e di superficialità infinita. Dice che si sente meglio quando sta da solo; Antonio Escudero dice di coltivare la solitudine a Las Navas, e che gode della pace e della tranquillità delle piante del suo mitico giardino. "E' stato bello", anche se deve per forza di cose finire. Come il libro di Sebald che ho ripreso in spagnolo (e che ho già letto in inglese e che forse comprerò anche in italiano), Los anillos de Saturno, pieno di foto e di immagini che sembrano provenire da un altro pianeta. Saturno, di fatto, era il pianeta della Melancolia, presagio di cattiva sorte, o di malattie e morte. Un libro strano, che sembra ruotare attorno alle vestigia dei tempi passati, che s'impegna a ricordarci che cenere siamo e cenere ritorneremo. Un libro che si apre con una citazione che fa al caso nostro ("E' stato bello, anche se è finito presto"):
'Good and evil we know in the field of this world grow up together almost inseparably'
E così ora, mentre scrivo dalla Biblioteca e attorno a me ci sono persone che scrivono le loro tesi e leggono gli autori più disparati e realizzano le loro ricerche con passione e foga, mi viene da pensare che anche queste due frasi sono inseparabili: "E' stato bello, anche se è durato poco".
martes, noviembre 13, 2007
Ascolto At last, della bravissima Etta James, e danzo sul bordo… Tra poco meno di 24 ore sarò a Madrid. La seconda patria (o seconda casa). Non so se avrò la stessa impressione avuta nel 1999, quando ci andai per la prima volta. Anzi, probabilmente l’effetto sarà diverso. Così come m’è parsa un’altra città quando la visitai nel 2001. E quando ci passai tre mesi nel 2003; e quando ci tornai per un convegno nel 2005. E quando ci passai l’estate del 2006. Si può vivere a metà, tra due nazioni? Si può stare con un piede in Italia e l’altro in Spagna? Quando ci si pongono di simili domande ci si rende subito conto del fatto che se si nasce in un posto è solo frutto di casualità. Non stava scritto da nessuna parte che io nascessi in un paesino arroccato tra i monti abruzzesi. E non era previsto da nessuno che nascessi dai genitori che poi ho avuto (la fortuna di avere). Il caso fa il bello e cattivo tempo, a prescindere dalla nostra volontà. E c’è chi si ritrova a vivere un rapporto a distanza non volendolo. E chi, invece, magari, vive un rapporto con la vicina di casa e ha già una casa e gli sta bene così (o ne trova una nella stessa città e decide di comprarla: facciamo un mutuo, tra quarant’anni la casa sarà nostra, potremmo lasciarla in eredità ai nostri figli, che ne pensi?). C’è chi è nomade di spirito; e chi non vede l’ora di fermarsi in un posto e passarci tutta intera la vita. Io personalmente mi annoio dopo una settimana a stare nella stessa città. E per questo do da mangiare alle FS da ormai più di dieci anni. E mi muovo tra Firenze, Pisa, Roma, e il paesino abruzzese di cui sopra. La casa è lì dove sono i tuoi affetti. Devo avere gli affetti un po’ sparsi in mezza Italia, ultimamente. Toscana, Lazio e Abruzzo. Senza contare gli amici vicini e lontani (Silvia di Vercelli – dunque Piemonte; Rosa e Seby di Salerno – dunque Campania; Emanuela di Fiuggi – dunque ancora Lazio; Gabriele di Macerata – dunque Marche; e Gabriele l’altro di Padova – dunque Veneto; Aurelia di Oristano – dunque Sardegna). E poi Daniela e Giovanna, di Livorno, e Roby, e Mery, e Renzo, ecc. ecc.
C’è chi trema all’idea di fare un colloquio di lavoro a qualche kilometro di distanza da casa sua; io partirei al volo, anche senza valigie, anche se il colloquio fosse a New York (città che mi riprometto di visitare, prima di morire). E poi c’è Cuba e La Habana con le macchine d’epoca ancora funzionanti; e il Messico con la capitale (tra le città più pericolose del globo, a detta delle statistiche); e il Perù; e il Canada o l’Australia, che tanto piacciono ad Alyssa. Che è più sedentaria e domestica di me (quante discussioni al riguardo!). Ma esiste davvero poi una casa in cui poter stare tutta la vita? E poter dire, “finalmente”, “at last”, sono arrivato…
domingo, noviembre 11, 2007

Ora, il punto è questo: secondo me esistono due grandi sotto-categorie dei film cosiddetti “horror” o del terrore; a) quelli che fanno paura a partire da una situazione realistica e verosimile; b) quelli che creano il terrore a partire da situazioni date di per sé come irreali, fantastiche o sovrannaturali. Per i film del primo gruppo, possiamo citare Psycho di Hitchcock; per quelli del secondo, possiamo pensare agli stessi film di Dario Argento (penso a Phenomena o anche al succitato Suspiria). Poi ci sarebbero film a metà: o che, partendo da una situazione realistica, sfociano nel “fantasy” e nel soprannaturale più puro (vedi Rosemary’s baby o L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski; o anche La notte dei morti viventi di George Romero); oppure quelli che, al contrario, partendo da una situazione apparentemente soprannaturale e fantastica arrivano a una soluzione finale razionale e realistica (vedi… non mi viene in mente un esempio, forse perché è più difficile pensare a un film con tali caratteristiche; in genere, quando si parte dal reale per sconfinare nel fantastico il viaggio è di sola andata e non si torna indietro; certo molti “trhiller” - e non “horror” – approdano a una spiegazione razionl-materialistico-matematica, ma spesso resta l’ombra del soprannaturale; in tal senso è esemplare proprio Psycho: i dottori possono pure rassicurarci, la giustizia – rappresentata dalla polizia del paesino in cui vive Norman Bates – può pure aver catturato il pericoloso e psicopatico serial-killer, ma Bates continua a spaventarci con quel suo ghigno malefico e da pazzo furioso – vedi dissolvenza incrociata tra il volto di Bates e il teschio di un cadavere). Ecco, le mie principali difficoltà a seguire La terza madre derivano dallo statuto fin troppo “fantasy” della storia. Ripeto: non che in Suspiria o in Tenebre (la seconda parte della trilogia) ciò non succedesse, o non ci fossero apparizioni di streghe, o scontri tra streghe malefiche e streghe benevole (magia nera e bianca, come suolsi dire); o che non ci fossero esplicite scene di splatter puro, con conseguente rovesciamento intestinale di budella, cervella e litri e litri di sangue e materiale organico; no, queste sono cose che si vedono anche nei primi due capitoli della trilogia su “mater suspiriorum” e “mater tenebrorum” e “mater lacrimorum”. E’ che nell’ultima parte il “fantasy” prende il sopravvento, il soprannaturale viene chiaramente mostrato e la suspense va a farsi friggere a scapito di una inverosimile lotta tra le forze del male e quelle del bene. Come si fa a credere a Asia Argento quando, inseguita da una banda di streghe vestite come mignotte o punkabbestia strafatte, riesce a nascondersi perfino allo sguardo del polizziotto scomparendo con la sola forza del pensiero? Come si fa a provare paura davanti a una strega cattiva dai tratti orientali che sembra uscita da un manga giapponese e che si lascia fracassare il cranio sul treno Roma-Orte? Come ci si può fare sconvolgere dall’Apocalisse che sembra impossessarsi della capitale, con scene di violenza, stupri, mamme che gettano i bambini nel Tevere se dietro a tutto questo c’è già una spiegazione logica, anche se legata al soprannaturale – ovvero l’arrivo a Roma capoccia di una banda di streghe guidate dalla “terza madre” del titolo? Questo è l’errore di fondo che evidentemente impedisce al regista di sfruttare al meglio la sua vena visionaria. E di non ripetersi troppo, come invece ha fatto in questo film.
Scrivo queste impressioni da spettatore, ma so già che, la prossima volta che Dario Argento farà un film, io sarò lì, presente, in fila, a comprare il biglietto, per godermi lo spettacolo. Perché ci si affeziona a certi film, e a certi registi, proprio come si ha caro il prorpio autore preferito o l’attore dei propri sogni adolescenziali. Però che bello sarebbe poter vedere film in cui non cala mai la suspense; in cui il regista ci regala nuove paure; in cui si gioca a carte scoperte (o anche coperte) un gioco comunque nuovo, o mai ripetitivo.
Leggo le recensioni all’ultimo film di Coppola e temo che l’esperienza vissuta per Dario Argento possa ripetersi per il regista di uno dei miei film preferiti, Apocalyspe Now (Apocalisse Ora, ovvero “dentro il cuore di tenebra” di Conrad e dell’America). E così ho anche paura a noleggiare Inland Empire di David Lynch. E se fosse una fotocopia di Eraserhead? E se fosse una fotocopia fatta male, per giunta? Ho amato Mulholland Drive; ma ho adorato ancora di più The Straight Story ovvero Una storia vera, perché non sembrava Lynch… Che gli artisti s’ingegnino a soprenderci sennò finiremo per tradirli! O voltare loro le spalle (e mi vedo già in fila, in attesa, prima di entrare in sala, per vedermi l’ultimo di Nanni Moretti, o l’ultimo di Woody Allen, o l’ultimo di Martin Scorsese…).
domingo, noviembre 04, 2007
Fotografie dell'infinito
viaggiare
tra le macerie
d'istinti ridotti a
brandelli
di scene di film
senza sonoro nè fine
tra mucchi di carte
e ritratti d'autore
lungo questa fine
di millennio
appena iniziato...
L'aria del mattino
E alzarsi la mattina presto
respirando l'aria dell'alba
tra i parcheggi
in compagnia di uccelli liberi
di disegnare in volo la linea
del mio destino,
del tuo cammino,
d'aerei che decollano e
portantini d'altri tempi,
di voci d'altoparlanti
e poliziotti in borghese
che vegliano per la
sicurezza
della nostre corte vite
messe in fila
lungo file d'alberi
e strade acciotolate
e curve inaspettate.
sábado, noviembre 03, 2007
Tutti i santi (All Souls) o tutti i morti (The dead), ancora non so distinguerli per bene.
Mi reco da un vecchio amico che fa il portiere di notte (lavoro invidiabile: vede passare un sacco di belle donne davanti al suo bancone e si fatica poco, giusto qualche bicchiere d'acqua, un asciugamano in più o "scusi, dove si spegne/si accende il condizionatore?"; tutta la notte davanti per dormire - sonnecchiare, via - vedere film (i "Bellissimi" di Rete4? Ultimamente ce l'ho con Rete4, non so perchè...), leggere romanzi, scrivere poesie, parlare al telefono con la moglie che è a casa e aspetta il suo ritorno la mattina all'alba... e poco più).
Parliamo di film; gli dico che mi piacerebbe poter tornare ragazzo, rivivere il giorno in cui vidi per la prima volta Back to the future, ovvero Ritorno al futuro, di Robert Zemekis (un film del 1985, avevo appena 8 anni); oppure poter vedere l'intera trilogia in un'unica lunga sessione, come hanno fatto quelli della "Festa del Cinema" a Roma, in omaggio a Dario Argento e alla sua trilogia (Suspiria, del 1977, annus mirabilis - non a caso nacqui io, in quel frangente storico...; Inferno, del 1981, con una delle inquadrature più spericolate della storia del cinema - da una finestra a una scalinata a un tetto e ritorno, più o meno, se non ricordo male, in un unico piano sequenza, una scena molto hitchcocckiana; La terza madre, di questo 2007 che volge al termine - già mi vedo a Natale, accelero i tempi- e che ancora non ho avuto il piacere di andare a vedere al cinema). Chissà come sarà stato contento Dario, a vedere tutta quella gente urlare di paura per le scene più atroci e splatter, a sentire gli applausi o le risate o i cori da stadio.
Renzo, così si chiama il mio amico, non ama l'horror; è fin troppo serio, per poter apprezzare questo genere di cose. A volte mi piacerebbe spiegargli che la serietà danneggia gravemente la salute. Poi mi fermo, perchè mi offre una sigaretta e perchè ognuno si programma (o fa finta di programmarsi) la vita come vuole (o come più gli aggrada). A proposito di film, gli dico che oggi ho finito di vedere un film stranissimo e surreale, o meglio, onirico, di Marco Ferreri: Storia di Piera. Renzo mi guarda sbigottito: non ne sa nulla. Entra una cliente, una bionda molto carina, con gli stivali bianchi e la giacca di cuoio nera. Sembra uscita da una discoteca. Emana un profumo pungente. Mi viene in mente una vecchia canzone di Lucio Battisti (l'idolo musicale di mia madre), quella che fa: "Che sbaglio avere una donna per amico", o qualcosa del genere. Sì, quella: Una donna per amico. Renzo mi guarda sbigottito. Non l'ha mai sentita.
E allora passiamo a parlare degli orari notturni di certi adùlteri, che affittano la camera e noleggiano una compagna per una notte (anche questa, una donna per amico, anche se a pagamento e a ore). E allora mi viene in mente un'altra canzone, una di Daniele Silvestri, una di quelle canzoni che ascoltavo sei volte al giorno mentre andavo a lezione all'Università (e attraversavo viale Ippocrate e poi viale dell'Università e poi Piazzale Aldo Moro): "Dov'è che ci siamo già visti? Non ti inquadro. Eri anche tu coi sandinisti o facevi teatro? Comunque procediamo, lo so ti sembro strano, ma sono gli anni il vino la miopia. Che poi non è che beva molto e qualche volto ancora lo ricordo e non ingrasso non sono sordo e ho ancora molta molta fantasia... Bisogna essere ottimisti, fino in fondo, perchè potrebbe essere domani la fine del mondo".
Renzo mi richiama sulla terra: "Ma dico, l'hai vista quella?". Gli spiego che mi ero distratto. Mi fa vedere la carta d'identità del tipo che l'accompagna in camera, un tipo grasso, uno qualunque, un po' calvo, un po' unto. Si è fatto tardi. E non ricordo se questo che si è appena concluso è il giorno di tutti i santi o quello di tutti i morti. E comunque è vero: potrebbe essere domani la fine del mondo...
domingo, octubre 28, 2007
(that's to say: if you like it, do it!)
23/10/07 ore 19,50
Sto partendo per Lecce per partecipare a un convegno sul tempo. Salgo al secondo piano del pullman che mi porterà alla fermata di Viale Ugo Foscolo e mi accorgo subito di una cosa: che quando ti siedi in un posto al secondo piano di un pullman sembra come se a guidare non ci fosse nessuno. Come se il pullman (col parabrezza libero e i primi posti sprovvisti di volante) ti portasse da solo dove vuole lui (e a te non resta che sperare che non si schianti contro qualche muro o albero).
Ai lati della strada sfrecciano luci rosse e gialle. Intravedo l'interno illuminato di qualche casa o palazzina poco distante dall'autostrada. E il fatto che ci siano luci accese dà conforto: vuol dire che c'è ancora vita in giro, da qualche parte, anche se tu, che sei in autostrada, non sapresti individuare nè il posto nè il nome del posto in questione.
24/10/07, ore 17,30
Sono venuto a Lecce per motivi di studio e mi accorgo di avere sbagliato abito: qui non fa così freddo come a Pisa o a Firenze. E soprattutto, qui nessuno va in giro con un completo nero e un cappotto nero invernale e un paio di Nike rigorosamente nere ai piedi. Passeggio tra la centralissima e trafficata Via Templari e Via Umberto I e mi sento a disagio, come fossi un maniaco o un ladro in incognito.
A Lecce fa davvero caldo e per provare a scaricare lo stress che mi produce tanto sudore sulla fronte mi fumo una sigaretta seduto davanti ai resti dell'Anfiteatro Romano. Siamo a Piazza Sant'Oronzo, tra le più famose della città. Intere famiglie consumano il loro pranzo tra i tavolini del McDonald; i vecchi chiacchierano davanti ai giornali. Provo a chiedere a tre tipi appoggiati a un palo accanto a un taxi quanto costa la corsa da lì a Viale Ugo Foscolo (la fermata da cui ripartirò per tornare a Pisa). I tre smettono di parlare e con tutta calma mi consigliano d'indirizzarmi a quei due signori laggiù. Sono loro quelli che guidano il taxi. Così, rosso in viso per la vergogna, mi rivolgo ai due signori, ma neppure questi sono i tassisti. Chiedo scusa e seguo le loro indicazioni: i due che m'interessano stanno dentro - e non fuori - del taxi. Che stiano per caso complottando alle mie spalle? Che tutti quelli cui chiedo informazioni stiano organizzando un piano per impedirmi di tornare a casa?
Alla fine ci rinuncio. Sono tornato a Piazza Santissima Addolorata: è qui che alloggio, per l'esattezza Vico San Giusto. Il mio bed & breakfast è un bilocale a piano terra con bagno minuscolo e piano cottura degno, anche se il resto dei mobili appartiene a un'era che non è più la nostra. Siccome le luci sono tante, ma tutte fioche e site negli angoli più impensati, scrivere o anche solo leggere il giornale diventa un'impresa e così le accendo tutte, compresa quella del bagno (al neon - fastidioso ronzio tipico delle sale d'attesa - ma almeno così ho l'impressione di avere più spazio, come se con le luci accese guadagnassi spazio).
Non so come spiegarlo, ma sembra che a Lecce le case a piano terra diano direttamente sulla strada: la gente non sembra avere problemi o timori a lasciarsi "spiare" o più semplicemente guardare dai passanti che attraversano le strade del centro. Come dirlo: le case, con le loro solite stanze note a tutti, sono tutte ad altezza d'uomo (se sono a piano terra, ovviamente). Qui di fronte, ad esempio: se apro la porta con le persiane in plastica posso vedere una vecchina che cuce a maglia e guarda le telenovelas di Rete4. Più in là c'è un gruppo d'indiani che, forse grazie alla parabolica, guardano un musical o un video con danzatrici del ventre loro connazionali. E tra loro soglia e il selciato non ci sono che pochi centrimetri di distanza (questo sì, questa zona della città, il centro storico, è per la maggior parte pedonale; ci sono poche macchine e quando ci sono diventa complicato farsi da parte, appoggiarsi al muro, e lasciarle passare).
Le case sono bianche per via del caldo. Immagino che qui d'estate si soffochi. E che i leccesi abbiano visto la neve rare volte.
Un'altra cosa che colpisce di questa città è la presenza massiccia e discreta di negozi d'antiquariato e di prodotti artigianali. Dalle collane ai braccialetti, dalle borse alle maschere di cartapesta ai prodotti in ceramica o terracotta, dalle librerie dell'usato ai quadri alle cornici, dalle stoffe più pregiate ai prodotti tipici della cucina salentina, qui il turista curioso e appassionato d'artigianato può trovare di tutto. Le persone sembrano concentrate nel loro lavoro. E se entri a curiosare o a chiedere un'informazione te la danno con una gentilezza estrema.
A Lecce si respire tranquillità e aria di mare (anche se il mare è distante e da qui non si vede). Vago tra i vicoli stretti del centro e ascolto il rintocco delle campane: qui è pieno di chiese che ci tengono a ricordarci che un'altra ora è trascorsa e che siamo anche noi, ahinoi, mortali.
25/10/07 ore 8,45
Salgo sul pullman che ci porterà da Lecce a Cavallino (il luogo degli incontri del convegno). E' stracolmo di docenti. Luminari della scienza; baroni; grandi saggi dell'Accademia italiana.
A un certo punto mi si siede vicino un signore dall'aria distinta e gli occhiali con la montatura di tartaruga. Ha in mano un libro di Enrique Vila-Matas. Ci getto l'occhio e lui si accorge che sto leggendo il titolo del romanzo di Vila-Matas.
"E' un autore che non conoscevo: sa, mi hanno chiamato a far parte della commissione che dovrà giudicare la tesi di una ragazza che ha scritto 500 pagine su questo qui". E io.
"E' uno dei miei scrittori preferiti. E' pazzo. Mescola citazioni reali a citazioni inventate. Fa impazzire anche i suoi traduttori".
L'anziano signore distinto ride:
"Eh sì! Io devo andare lì a certificare se è postmoderno o meno. Secondo me lo è". E io:
"Oh, sì, ma certo che lo è, non ci sono dubbi. Postmodernismo allo stato puro. Un grande ironico, questo Vila-Matas".
Solo quando entro nella sede del convegno e sento le presentazioni dei partecipanti mi accorgo di aver parlato di Vila-Matas e di postmodernismo con Remo Ceserani. Che sul postmodernismo ha scritto qualche tempo fa Raccontare il postmoderno. Rosso in viso, alla pausa caffè, mi sono presentato chiedendo venia per la piccola gaffe. Il prof. Ceserani ride. Quale gaffe? Non ero certo tenuto a riconoscerlo dalla faccia! Poi lo ringrazio perchè in quel suo libro di qualche tempo fa citò due cose a me molto care: il luogo tra i monti abruzzesi in cui sono nato e un autore sottovalutato e misconosciuto come Tiziano Sclavi. Ride ancora e poi se ne va, parlando coi colleghi, e giovani promesse dell'Accademia italiana.
26/10/07 ore 2,12
Sono già 5 ore che siamo in viaggio. Ci siamo fermati all'autogrill per una sosta. Mi sgranchisco le gambe e mangio una mela. Una bionda molto carina ma dal culo enorme (e degli orrendi stivaletti rossi ai piedi) chiacchiera d'amore con un ragazzo ingelatinato. Si nota che sono amici e che si vogliono bene e che si conoscono da una vita. Io non conosco nessuno dei viaggiatori e avrei voglia di chiamare mia madre. O Alyssa. O mio fratello. Ma è tardi, stanno dormendo. Non posso disturbarli a quest'ora. E poi farei loro prendere uno spavento. Non è il caso. Accendo la luce del mio posto al secondo piano e leggo queste frasi da La pelle di zigrino di Balzac (e mi ci riconosco molto):
"E io, debole, gracile, così modestamente vestito, pallido e smunto come un artista appena convalescente dalla sua ultima opera, come potevo competere con dei graziosi giovanotti, arricciati, agghindati, incravattati da indurre la Croazia alla disperazione, ricchi, armati di Tilbury e rivestiti d'impertinenza?"
Già: come posso io competere?
lunes, octubre 22, 2007
Se gli avessero detto che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno, avrebbe fatto maggiore attenzione, non ci sono dubbi. Non avrebbe lasciato la tazza del latte sotto la goccia del rubinetto e tutta incrostata di marmellata e cereali (non stava bene e poi sua moglie doveva rigovernare e avrebbe fatto maggiore fatica a staccare le parti di cibo incrostate). E non avrebbe lasciato a metà quel romanzo che gli piaceva tanto (lo stava prendendo, come si suol dire, la trama l'aveva ormai accalappiato, voleva sapere che fine avrebbe fatto quel potenziale suicida con in mano un potere sovrannaturale come quello offertogli dal vecchio che gli ha venduto la pelle di zigrino...). E avrebbe chiesto scusa a moltissime persone care. Amici, parenti, suo fratello, e la moglie. A lei avrebbe detto tutte le frasi che non aveva avuto mai il coraggio di dire (perchè, al suo orecchio, suonavano troppo romantiche). E l'avrebbe baciata con più passione.
Se gli avessero detto che quel giorno si sarebbe fracassato la testa contro un albero, mentre era al volante, ne avrebbe approfittato per guardare l'ultimo film di Woody Allen e andarsene per sempre lontano con un sorriso. E avrebbe fatto le coccole a Biscotto, quel gattaccio che dorme sulla pancia della moglie e certe notti lo obbliga a prendere i sonniferi per riuscire a dormire perchè fa troppo rumore, ronfa e ronfa che è una bellezza.
Se lo sapeva prima, non avrebbe perso tanto tempo in questioni di poca o minima importanza come pagare le bollette e far quadrare i conti a fine mese: quanti tramonti si era perso? Quante volte si era dimenticato di guardare le stelle cadenti? Quante notti era stato in casa, seduto, in pantofole, davanti al televisore, invece di stare un po' fuori, con il naso all'insù?
E avrebbe baciato di più sua figlia, la piccola Ines, e le avrebbe raccontato del suo passato da studente scapestrato (quanti episodi del suo passato ignorava la piccola Ines). E le avrebbe detto che nella vita è importante godersela perchè non si tratta solo di fare il proprio dovere, quello è risaputo, ma al dovere, figlia mia, devi aggiungere il piacere, sennò che vita è?
Se lo avesse saputo prima, avrebbe fatto quel viaggio a Cuba cui aveva sempre rinunciato per problemi d'economia domestica. E avrebbe convinto la moglie a lasciare la scuola per un po', avrebbe fatto le valigie anche per la figlia, e sarebbe stato pronto a vincere la paura dell'aereo, in rotta verso La Habana.
E invece non lo sapeva e così finì con lo schiantarsi contro il guard-rail e poi contro quell'albero a lato sinistro della strada, dopo la curva, sotto la pioggia, e l'ultima cosa che riuscì a vedere fu un fulmine e l'ultima cosa che riuscì a sentire fu il rumore di un tuono, e l'ultima cosa a cui pensò fu al dopo, e poi, immediatamente dopo, a Ines e alla moglie, le avrebbe lasciate sole e indifese, temeva che non ce l'avrebbero fatta ad andare avanti da sole e poi c'è quella tazza, e il segnalibro a metà di La pelle di zigrino (Balzac è un mostro d'invenzione), e quella telefonata, e quell'amico che non vedo da una vita, e quel dottore che mi diagnosticò il tumore e si era sbagliato (per fortuna) e quella luna e queste stelle, sopra le nuvole, mentre piove e la ruota dell'auto gira a vuoto e l'unico rumore che sento è quello di un tuono in lontananza e l'unica cosa che vedo è questo fulmine che per un attimo illumina a giorno il cielo, che peccato, non poter rivedere le stelle...
viernes, octubre 19, 2007
Non sono riuscito a vedere l'intervista di Serena Dandini a Sandro Veronesi (dalla puntata del 20 Maggio di Parla con me - le magie di internet: basta connettersi a RaiClick e poi selezionare il programma preferito ed il gioco...sarebbe fatto). E intanto la vita passa. Per motivi che non è il caso di citare in questa sede, mi ritroverò a viaggiare (e mangiare kilometri e kilometri d'asfalto, aria, e terra) tra Pisa, Firenze, Roma, Lecce e Madrid (dopo quasi un anno, torno nella mia seconda patria). E intanto: provo a capire chi sia davvero Victor Iriarte (consiglio a tutti il suo blog: http://cajanumero8.blogspot.com/). Ogni tanto lascio un mio commento ai suoi post "cinetici" (o "cinematografici"; davvero uno spettatore/lettore attento; non gli sfugge nulla). E immagino che sia davvero un regista, uno di quelli bravi, che ci crede, che crede nella potenza dei sogni ad occhi aperti, che fa film d'autore (o ci prova, almeno, contro l'imperialismo estetico americano). E intanto: il tempo passa, ho superato la trentina e ho ancora in mente quel romanzo, in cui si mescola tutto. In cui parlo di Tony Umorali, un personaggio stralunato che tenta di suicidarsi in tutti i modi e non ci riesce (c'è quella scena che ho riscritto cento volte e non viene mai la versione definitiva, quella in cui decide d'impiccarsi e si stacca la corda - o si stacca il lampadario vecchio e arruginito intorno a cui lega la corda che dovrebbe togliergli la vita). E si parla anche d'Università, degli scandali quotidiani che occupano il gossip accademico: quell'alunna tanto scarsa eppure tanto bella che riesce a portarsi a letto il prof. piacente e piacione; quell'altra che vince la cattedra lì dove insegna il suo amante; quello che si batte idealisticamente contro il marciume morale che regna ovunque e vorrebbe mettere una bomba in presidenza e invece sbaglia indirizzo, fa esplodere l'aula magna, perchè, preso da un raptus d'ira, semplicemente, entra dal portone sbagliato. In questo romanzo si parla anche d'amore: di un tizio perverso che s'intrufola nelle case delle fidanzate per portarsi a letto le rispettive mamme; un tizio così schifoso che quando viene scoperto dalla ragazza più carina e dolce che abbia mai incontrato si butta dal ponte dell'autostrada Roma-Teramo (all'altezza di Pietrasecca). E poi si parla di odio. E di invidia. E di solitudine. Le lancette dell'orologio scorrono e un vecchio attende la morte steso sul letto di un'ospedale tagliato fuori dal mondo. Scatta la mezzanotte e un'infermiera gli dice se preferisce svegliarsi o se vuole continuare a vivere il suo incubo quotidiano (il vecchio annuisce e l'infermiera gli ricarica la flebo di una sostanza giallognola). E poi si parla di paura. C'è quello che ha paura di perdere il lavoro e lo perde davvero. Ha 42 anni e si riscopre artista: canta e canta. Si dà al canto fino ad arrivare ad incidere un disco, e nessuno dei suoi colleghi gli crede, fino a quando non lo vedono cantare dal palco di Sanremo.
E intanto... Non ho ancora letto l'ultima parte di un romanzo uscito a puntate dal 2002. Queste sono le prime parole dell'incipit:
Uno non lo desidera, ma preferisce sempre che muoia colui che gli sta affianco, in una missione o in una battaglia, in una formazione aerea o sotto un bombardamento o in una trincea, quando c'erano, in una rivolta di strada, o in un furto in negozio o in un sequestro di turisti, in un terremoto, un'esplosione, un attentato, un incendio, è lo stesso: il compagno, il fratello o il padre, o addirittura il figlio, anche se è un bambino.
E intanto, ascolto "Black Tambourine" dei Bleck, mentre Alyssa dorme e sogna sogni d'oro, ignara della mia insonnia di questa notte, piena di buoni propositi e di pensieri nervosi. Piena di progetti mai portati e termine e che forse resteranno solo tali, condannati a vagare per sempre nel limbo (dei progetti di vita).
domingo, octubre 14, 2007

lunes, octubre 08, 2007

domingo, octubre 07, 2007
Suona come il titolo di un libro per "single" o per "aspiranti Casanova". Non è nè l'uno nè l'altro: voglio dire, questo post non tratta dei problemi di chi è solo (e cerca una compagna) o di chi è solo e cerca molte avventure. Si tratta molto più semplicemente di un mio tentativo per cercare di scandagliare una parte della mia vita avvolta nel mistero...
Io ho avuto poche donne; di sicuro ne ho avute meno di quelle che desidererei ancora oggi. Ancora ora, ne vedo passare un monte e molte me le porterei a letto (nel senso che ci farei l'amore e che poi proverei a parlarci, per stabile un contatto che non si riduca al solo sesso o al semplice atto animale). In realtà, ne vedo tante, ma su tutte applico il famoso detto "guardare ma non toccare", anche perchè, tra le altre cose: 1- sono findanzato; 2- sono fedele; 3- sono troppo impegnato (nel corpo e nella mente) a pensare alla mia vita potenziale futura in compagnia di Alyssa per pensare alle altre (o per immaginarmi accanto ad un'altra).
Eppure... Passano gli anni e mi accorgo di avere un particolare feeling con le persone dell'altro sesso: mi bastano pochissimi minuti per entrare in confidenza con una ragazza a me sconosciuta pochi minuti prima. Uno scambio di battute, le dovute presentazioni, e mi ritrovo subito immerso in un dialogo accanito su vita passata, vita presente, gusti e hobby, cosa fai tu domani sera, perchè non ci vediamo per andare a vedere un film o a mangiare una pizza, etc. etc....
Non so da cosa dipenda (se c'entrano qualcosa i geni), eppure mi riesce davvero facile stringere amicizia con le rappresentanti dell'altro sesso. Non è perciò un caso che abbia molte più amiche donne che amici maschi. Eppure...
Passano gli anni, più invecchio e più noto che anche le donne, in un qualche modo a me sconosciuto, percepiscono che di me si possono, ripeto: in qualche modo, fidare. Si avvicinano, mi fanno gli occhi dolci, oppure, più semplicemente, mostrano un certo interesse e cominciano a parlarmi del più e del meno e mentre parlano io mi rendo conto del fatto che, modestia a parte, potrebbero manifestare nei miei confronti interessi che vanno al di là dell'amicizia o della pura conoscenza superficiale, per inoltrarsi nell'ambito molto più spinoso dei sentimenti e della passione, mi è capitato più volte, in passato (e che Alyssa mi perdoni per quello che sto per dire), che una ragazza o una donna (anche d'una certa età - diciamo una quarantina d'anni) m'abbia manifestato un interesse che sorvolava gli interessi più comuni (e che più ci accomunano in quanto esseri umani pensanti) per coinvolgere gli "istinti di base" (con tutta la carica di elettricità e di caos che questi implicano). Insomma, mi è capitato più volte (in un bar, al bancone di una discoteca, lungomare, all'uscita di un cinema o dopo una cena a casa mia, sulla via del ritorno) di assistere a dimostrazioni d'interesse puramente sessuale...
E tutte le volte che è capitato, io mi sono limitato a fare lo sciocco: a buttarla sul ridere, a fare battute immani, a girarci intorno, senza approfittare mai (o quasi mai) della situazione favorevole (le labbra socchiuse, lo sguardo dolce, gli occhi luminosi, le labbra carnose e invitanti, la voce più lenta e persuasiva, le cosce messe in bella mostra, i tacchi alti o le scarpe coi tacchi allacciate proprio nel momento in cui pronuncio le battute più stupide - e lei ride, mi mostra i suoi denti bianchissimi e la lingua e mi invita a baciarla, o ad abbracciarla, a toccarla, in qualche modo, a stabilire un contatto fisico con lei e con il suo corpo invitante - la scollature generosa, le gambe tornite - quante armi hanno a loro disposizione le donne!).
Ripeto: tutte le volte che mi è capitato, io ho cercato di sviare il discorso; o con l'ironia o con l'autoironia (e ancora non mi è capitato di conoscere una donna che non sorrida dell'autoironia di un uomo - sarà perchè loro, le donne, sono scarsamente o raramente auto-ironiche).
Insomma: non me ne sono mai approfittato (a differenza di qualche mio amico che ha concluso la notte a letto, tra gridolini di piacere e sigarette fumate subito dopo l'orgasmo).
Non mi ritengo un bel ragazzo; non sono affascinante, nè interessante. Forse, a prima vista, posso risultare simpatico. E auto-ironico. Ma oltre a questo, ci sono poche qualità che possano attrarre le persone di sesso femminile. Eppure capita: e passano gli anni, e continuo a stare con Alyssa, e continuo a sperimentare lo stesso atteggiamento da parte loro; loro mi guardano, io le guardo, penso: "come sarebbe bello poterti baciare o leccarti la fica", e nel mentre sto fermo, sorrido, faccio battute, loro ridono alle mie battute e poi tutto si spegne, in una grossa risata o, al massimo, in una serie di risatine buffe che lasciano trapelare il dispiacere, o il disgusto, o più semplicemente il disappunto: "avrei voluto scoparti, ma si capisce che non mi vuoi, forse non ti vado bene così come sono, forse non sono il tuo tipo, però mi piaci lo stesso, chissà che non cadrai la prossima volta, chissà che non riesca a portarmiti a letto". E io ribatto: "mi piacerebbe scoparti, ma non è il caso; sono fedele e poi ho paura: e se invece non ti interesso? E se ridi alle mie battute solo per educazione o per falsa riconoscenza? E se mi trovi brutto? E poi, scusa, ma non mi hai appena detto che sei sposata - o fidanzata - o comunque impegnata?".
Pippe mentali. La fortuna vuole che continui ad avere più amiche donne che amici maschi; e che riesca a sopportare la mia vita anche grazie a loro, le donne...
miércoles, octubre 03, 2007

viernes, septiembre 28, 2007
Finalmente, dopo tanti anni, ho conosciuto anch'io Teodoro W. Adorno. E' il gatto di Julio Cortázar, l'autore di racconti straordinariamente fantastici (nel senso letterale del termine: ma, ora che ci penso, "fantastico" ha davvero un suo senso letterale? Da dove deriva e cosa significa letteralmente il termine phantasticus?).
Questo Adorno fece impazzire più d'una traduttrice dei racconti dell'autore de Las babas del diablo: nell'Aprile del 2005, un altro scrittore ispanoamericano, Luis Sepúlveda, quello de La gabbianella e il gatto (da cui Enzo D'Alò trasse un film molto educativo e ben fatto, anche se, a parer mio, meno bello de La freccia azzurra - vero capolavoro del cinema d'animazione) raccontò un aneddoto legato a questo problema. La traduttrice di Cortázar si era imbattuta in un Adorno che non c'entrava niente in quel contesto; all'inizio credette che doveva trattarsi di una citazione nascosta dal filosofo tedesco; poi d'un ghigno d'autore; ma alla fine dei conti era davvero surreale che Adorno, in quel brano del racconto in questione, scondinzolasse tra le gambe del protagonista. Solo dopo due telefonate a Parigi, riuscì a capire che Cortázar si stava riferendo al suo gatto. Nero, simpatico, scattante, come tutti i gatti che si rispettino (in una foto si vede Cortázar seduto davanti a una finestra; dall'altra parte Adorno che prova a graffiarlo affettuosamente, ritto sulle due zampe; non si capisce chi, tra i due - essere umano e essere animale - si diverta di più).
Ed ecco così finalmente Adorno in primo piano (anche se di spalle): l'ho trovato a p. 14 del libro-collage (specie di zibaldone o contenitore di "racconti in potentia") La vuelta al día en ochenta mundos (Madrid, Debate, 1993). La foto è ambigua, come tutte le foto che si rispettino: in realtà, non è facile stabilire se Adorno ci dia le spalle, mostrando olimpicamente il suo totale distacco dagli affanni terreni; oppure se, invece e al contrario, posa proprio in primo piano, ma il viso (e il resto del corpo) è in ombra, stagliato sullo sfondo bianco di una persiana al cui lato sinistro campeggia un mazzo di fiori costretti in vaso poggiato sul davanzale.
Cortázar deve essersi divertito molto a giocare con il suo Adorno; ed è forse per questo che gli dedica foto e diversi brani del libro (il cui titolo, è evidente, è anche un omaggio a Philieas Fogg, il protagonista del romanzo di Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni.
Quanti mondi c'entrano in un giorno? O, al contrario, e ribaltando la domanda: quanti giorni c'entrano in un mondo? Cortázar ci dice che la letteratura è ovunque; e che la finzione può scaturire anche da un gatto seduto davanti ad una finestra (o su un balcone intento a fissare un altro gatto appostato anch'esso sul davanzale della finestra della casa di fronte).
A p. 10 c'è la foto di Jules Verne: sembra Babbo Natale, con una barba bianca folta e rigogliosa e quegli occhi spiritati da esploratore instancabile di mondi "altri". In realtà, in questa immagine, Verne ricorda inevitabilmente un altro genio. Einstein, ripreso in primo piano, mentre sorride con i capelli tutti arruffati. E tra Eistein e Verne, il passo è breve. Anche se sono vissuti in due epoche diverse. Anche se probabilmente l'uno ha sempre continuato ad ignorare l'esistenza dell'altro. E di Adorno. Che siede ancora sul davanzale, e forse è ancora vivo, e scondinzola tra le gambe di Cortázar...
lunes, septiembre 24, 2007
Cara Alyssa,
lo so che tu non mi leggi (o che si contano sulle dita di una mano le volte che leggi i miei pensieri su questo blog - qualche sforzino in più, è vero, lo fai, quando si tratta dei racconti) e quindi so che, almeno per ora, sto scrivendo a un fantasma (a un'altra "te" che non mi sente e non mi vede, e che chissà se dorme di già a Firenze o è qui a Pisa, vicina al mio letto, intenta a scrutarmi mentre le scrivo e non mi accorgo che sì, è proprio qui a fianco a me e mi prende in giro perchè vede che io credo di stare scrivendo ad un fantasma quando invece...). E quindi so pure che quanto ti scrivo potrebbe fare la fine del messaggio lasciato nella bottiglia gettata in mezzo al mare: ovvero, non arrivare mai a destinazione (e allora perchè, mi domando, perchè continuiamo a lanciare messaggi nelle bottiglie? Romanticismo imperituro? Ostinazione tutta umana a voler sfidare la sorte?). Eppure ci provo: proverò a spiegarti perchè è il caso che si rifletta insieme sulla mia presunta "mania libresca", su questa sorta di malattia della mente che mi obbligherebbe a leggere sempre e solo come se il libro che ho tra le mani fosse di fondamentale importanza per la mia formazione di uomo, come se stessi sempre studiando, matita alla mano, evidenziatore pronto, orecchiette alle pagine più belle già pronte a rovinare la carta del testo in questione...
Non è vero che leggo sempre studiando; non è vero affatto che non mi abbandoni a un tipo di lettura "rilassante" e pacata; è contro ogni evidenza dire che sono così concentrato quando leggo da dimenticarmi della tua presenza se mi sei accanto o con la testa sul petto e in attesa di coccole.
Ci saranno pure state nottate in cui ho perso il senno dietro a pensieri stampati e inventati da una mente contorta; ci saranno state un paio di volte in cui ti ho lasciata a letto per andare di là in cucina a leggere la fine di un capitolo particolarmente avvincente. Ma ti giuro che questa non è la prassi, che non è mia abitudine abusare della tua pazienza o ignorarti completamente per ore filate.
E' vero pure che c'è chi, dopo aver fatto l'amore, si addormenta di botto o si fuma una sigaretta: io preferisco leggere, rituffarmi a capofitto nella trama di un giallo o negli interstizi di un saggio di filosofia. Si sa, son gusti. Ma riconosco pure i miei limiti: conosco il senso del rispetto; o almeno credo e lo spero. E ti assicuro che non permetterei mai alla mia cosidetta "mania libresca" (pensiamo a Don Chisciotte) di impossessarsi di me fino al punto da portarmi lontano da te e dal tuo corpo desideroso di carezze e baci sottili. Non lascerò che l'una passione soppianti l'altra. Anche perchè sono due passioni diverse e che coinvolgono in modi diversi. Non avere paura, perchè non ti farò addormentare tutte le notti da sola. Non di solo libri vive l'uomo, così come non di solo pane ci nutriamo (e poi sarebbe davvero assurdo, da matti, portarsi sempre a letto dei libri; anche se coi libri, quando valgono, bisogna anche andarci a letto e farci la notte in bianco).
Dormi pure sonni tranquilla, mia cara Alyssa. E credimi: il saggio sa che tutta la sua sapienza non serve a nulla se non è d'aiuto al prossimo. E che nessun libro potrà permettergli d'avanzare lungo il cammino della verità senza l'osservazione acuta e attenta, cosciente e irrazionale a un tempo, dello spettacolo che la Natura gli porge sotto gli occhi. E tu sai come mi hai catturato attraverso i tuoi occhi dolcissimi. E che da essi ho intravisto quella luce che ancora m'illumina.
Tuo
Rendl (o Anto)
viernes, septiembre 21, 2007

E' così che s'intitola la foto qui affianco, di Ralph Gibson, fotografo di cui ignoravo perfino l'esistenza prima di leggere il bellissimo, suadente e romantico saggio di Philippe Dubois su L'atto fotografico (Urbino, Quattroventi, 1996 - l'originale francese è del 1983; all'epoca avevo appena 6 anni, ma ero già affascinato dalle immagini fotografiche, anche se odiavo farmi fotografare, mia madre mi diceva che "uscivo sempre con gli occhi chiusi", deve essere inversamente proporzionale, la mia sensibilità alla luce - solare - con la mia voglia di guardare, catalogare il mondo per immagini, osservare quante più immagini possibili si può, riempirmi la retina di foto...).
Questa foto colpisce per tutti i buoni motivi che elenca Dubois (ricordo che l'analizza in uno dei capitoli finali del libro, quando parla dell'importanza del fuori campo o off dell'immagine fotografica: quanto sia importante ai fini della comprensione, fruizione e interpretazione di una foto sia quello che appare dentro il quadro, che quanto resta per forza di cose fuori dello stesso). Qui, in particolare, il fuori campo parla, è eloquente: perchè non solo la mano che sta per aprire del tutto la porta appare da un "fuori campo" deducibile (la parte a sinistra della porta, dal punto di vista di chi guarda), ma anche perchè quella stessa mano, sotto forma di ombra (pulvis et umbra, sempre), si proietta sullo schermo della parete, aprendo per così dire lo spazio destro della foto stessa, riempiendo di senso (perturbante?) anche il lato destro dell'immagine.
Sinistra (una mano), destra (l'ombra di una mano), centro: una porta socchiusa, dietro della quale s'intuisce la presenza di una stanza; in primo piano, il pavimento di quel corridoio che conduce proprio alla porta che si (sta) per aprire (che qualcuno - ma chi? Un fantasma, un essere umano, uno zombie, un bambino, un uomo o una donna? Un vecchio? - fa il gesto di "aprire"), impedendoci, negandoci, sottraendoci proprio quella porzione di spazio verso cui tenderebbe naturalmente l'occhio (voyeurista) dello spettatore. La porta: fermiamoci su questo elemento tipico; basilare di ogni architettura domestica (non esistono case senza porte; se sì si chiamano bunker; ma in quel caso vi si penetra attraverso una botola, un passaggio segreto, un buco nella terra; la porta è proprio il punto di passaggio per eccellenza verso la "domesticità": solo se c'è una porta ci sarà pure una casa; si entra nel regno del familiare, anche quando chi vi abita ci risulta sconosciuto; comunque quello sconosciuto considererà sempre la porta d'ingresso come "la chiave che apre le porte del regno domestico"). Dicevo: la porta. E' di forma (ovviamente) rettangolare; ebbene: immettere dentro il quadro di un'immagine fotografica (rettangolare) un oggetto, o una seconda immagine, dalla forma rettangolare non è operazione innocente; al cinema (ma credo anche in fotografia) quest'operazione assume i tratti della figura retorica e si chiama (in francese, guarda un po') recradrage. E' come quando inquadro una televisione in un film: l'effetto è da mise en abyme (guarda un po', anche questo secondo termine tecnico è in francese; che il francese sia fissato su certi fenomeni tipici dell'arte "modernista" o "avanguardista"?). E' come quando un regista in-quadra un quadro famoso; o, ancora meglio, quando mi fa vedere un attore che è posto davanti a un quadro e contempla il quadro con la testa ravvicinata al soggetto del quadro e io assisto a un osservatore che osserva senza sapere di venire osservato da altri da dietro le spalle... Ecco una prima conclusione cui si giunge guardando questa foto: il mistero nasce anche dal fatto che essa si costruisce come recadrage: mette al centro del quadro (in-quadra) un quadro (qui, in realtà, un rettangolo), aprendo la strada (dell'interpretazione) verso uno sfondo, un altro quadro (la stanza) che non si vede. Ciò che intra-vedo da dietro la porta è solo, oltre alla mano "misteriosa" che fa atto d'aprire, una striscia bianca orizzontale lungo la parete spoglia; parte del pavimento in parquet (prosecuzione logica del parquet che si vede in primo piano). E nientre altro (nemmeno un'ombra; anzi: nemmeno l'ombra di un oggetto, una persona, un paesaggio, un quadro, una finestra, nulla). Una porta che apre sul nulla? Un gioco di specchi di cui non capisco il fine e le cause?
Mi piace pensare (ipotizzare anche) che quella mano non è nè frutto di un fotomontaggio nè frutto del caso (ma in una foto il caso e il destino - poteva essere così; deve essere così - si danno la mano), bensì sia proprio la mano di Ralph Gibson, l'artista-autore che ha ideato questa immagine alludendo a qualcosa che potrebbe essere proprio l'atto fotografico così come lo intende Dubois. Un atto misterioso che apre la strada a mondi "altri"; che raggela e congela nell'istante un attimo di tempo e una porzione esatta di spazio. Spazio e tempo mummificati e, al contempo, resi eterni dall'effetto della luce sulla pellicola impressionata (le foto fanno sempre impressione, anche quando hanno per oggetto contenuti domestici). Spazi-tempo che l'occhio può percorrere a piacimento ma che restano sempre muti; nessuno verrà a dirci cosa si nasconde dietro quella porta; nessuno sa davvero di chi sia quella mano; e forse non valeva nemmeno la pena porsi questioni simili; la foto è là, fissa, immobile, inquietante. E mi parla senza parole.
sábado, septiembre 15, 2007
Seneca osserva: "L'uomo è destinato a tornare alla vita, e perciò deve uscirne serenamente. Osserva il ciclo attraverso cui le cose ritornano tutte in se stesse: vedrai che nulla in questo mondo si estingue, ma con moto alterno tramonta e risorge. Se ne va l'estate, ma per tornare l'anno successivo. Passa l'inverno, ma riapparirà nella sua stagione. La notte nasconde il sole, ma subito dopo il giorno porta via la notte. Similmente le stelle, nella loro rotazione, non fanno che tornare dove sono già passate. Continuamente una parte del cielo sorge, e una parte sprofonda sotto l'orizzonte. E concluderò aggiungendo solo questo: neppure i bimbi e i dementi temono la morte. E' perciò cosa veramente vergognosa che la ragione non sia capace di darci quella serenità di spirito a cui porta la stoltezza". (dalle Lettere a Lucilio, Libro IV, lettera 36).
Queste parole non ci dicono soltanto che, molto probabilmente, come fecero Quevedo, Góngora, Gracián, Lope e compagnia bella, anche Cervantes lesse attentamente i classici e, tra questi, Seneca (il Seneca morale, mi verrebbe da dire), ma che lo assimilò alla propria lingua, re-inventadolo attraverso una nuova, originale riflessione sul tempo come freccia e come cerchio (tutte le cose, per Cervantes, girano "a la redonda" o "en redondo"; ricordiamoci pure del fatto che in realtà chi riflette nell'incipit di quel capitolo della II parte del Quijote non è il Monco di Lepanto, ma Cide Hamete Benengeli, quell'autore che, a detta del "primo autore", ha scritto il romanzo che narra delle avventure di Don Chisciotte e che un traduttore "arábigo" verte nello spagnolo dal testo originale).
Non inventiamo (mai?) nulla di nuovo; non solo la letteratura si nutre di altra letteratura e il presente si evolve grazie al passato, ma, a quanto pare, anche le nostre vite sono destinate ad avere un'eco nel futuro, ripetendosi nei gesti, nelle parole o nei ricordi di chi ci sopravviverà. O meglio: questo è quello che ci suggerisce Seneca, nella lettera succitata indirizzata a Lucilio. E fa una certa impressione sapere che ormai, tanto di Seneca quanto del suo discepolo Lucilio, non restano che le ossa (o forse neppure quelle: pulvis et umbra, come sempre)...
O forse no, qualcosa resta: il libro che raccoglie quelle stesse lettere, quel libro che Seneca scrisse secoli fa e che ancora oggi, il 14 Settembre del 2007, agli inizi del XXI secolo, qualcuno si prende la briga di leggere, convinto di non trovarvi cose interessanti. E invece, quante massime utili, quante frasi che lasciano a bocca aperta, come questa, in cui il maestro invita l'alunno a fare in fretta, a portare subito a compimento i suoi sogni, perchè, si sa, tempus ruit: "pensa che tu sei mortale ed io son vecchio". Da restare a bocca aperta...
David Lynch: non lo "lyncheremo" più Ieri sera, verso le 20:00 (l'ora di cena per me, all'italiana), mia cugina mi manda ...

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David Foster Wallace docet Un anno fa moriva suicida David Foster Wallace. Sono già iniziate le commemorazioni, la pubblicazione delle opere...
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Dedicato a Silvia, l'amica di "Impressioni di vita" Seneca osserva: "L'uomo è destinato a tornare alla vita, e perciò...
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Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...